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Alvin sapeva che il compartimento non si sarebbe aperto se il cervello della nave non avesse stabilito che l’aria era respirabile, ma per un attimo dubitò che si fosse verificato un errore. L’aria era scarsissima, insufficiente. Poi, respirando a fondo, capi che immagazzinava abbastanza ossigeno; tuttavia, avrebbero potuto fermarsi solo pochi minuti.

Si avviarono verso il robot e la parete curva dell’enigmatica cupola.

Mossero ancora qualche passo, poi si fermarono di colpo, simultaneamente. Un identico messaggio era risuonato nella loro mente come il suono di un potente gong: pericolo. Non avvicinarti.

Nient’altro. Un messaggio fatto di pensiero puro, non di parole. Alvin era certo che qualunque creatura, a prescindere dal livello d’intelligenza, avrebbe ricevuto lo stesso avvertimento, trasmesso in maniera inconfondibile dallo stesso identico mezzo: la mente.

Era un semplice avvertimento, non una minaccia. Sentivano in qualche modo che non era diretto contro di loro. Era stato impartito a loro protezione. Qui, sembrava dire, c’è qualcosa di estremamente pericoloso, e noi, costruttori delle cupole, non vogliamo che qualcuno corra incidentalmente un grave pericolo.

Alvin e Hilvar fecero alcuni passi indietro, poi si guardarono; ciascuno aspettava che l’amico si pronunciasse per primo. Fu Hilvar a parlare.

«Avevo ragione io, Alvin. Qui non c’è intelligenza viva. L’avvertimento è automatico, scatta non appena qualcuno supera la distanza fissata.»

Alvin annuì. «Mi chiedo cos’abbiano cercato di proteggere» disse. «Ci saranno abitazioni… o altro, chissà, sotto quelle cupole.»

«Non potremo scoprirlo se tutte le cupole ci daranno lo stesso segnale.

Interessante, però, la differenza tra questi tre pianeti! Il primo l’hanno abbandonato portando via quasi tutto. Il secondo l’hanno abbandonato senza curarsi di nulla, qui invece pare che si siano dati molto da fare. Forse speravano di tornare un giorno o l’altro e volevano che tutto rimanesse com’era.»

«Ma non sono più tornati, ed è trascorso un tempo immemorabile.»

«Avranno cambiato idea.»

«Strano», pensò Alvin. «Hilvar e io abbiamo parlato entrambi riferendoci a ’loro’. Chiunque o qualunque cosa ’loro’ siano stati, la loro presenza è ancora avvertibile sul primo pianeta, e più che mai su questo. Ecco un mondo che è stato accuratamente impacchettato e conservato nel caso che potesse tornare utile…»

«Torniamo alla nave» ansimò. «Faccio fatica a respirare.»

Quand’ebbero richiuso il compartimento stagno e si furono un po’ rinfrancati, discussero sul da farsi. Per compiere un’investigazione accurata dovevano accostarsi a un buon numero di cupole, nella speranza di trovarne una in cui fosse possibile entrare. Se invece l’avvertimento si fosse ripetuto regolarmente… Ma Alvin preferiva non pensarci.

Dovette pensarci meno di un’ora dopo, e in uno stato d’animo molto più drammatico di quanto avrebbero mai immaginato. Il robot era sceso su una dozzina di cupole, sempre con lo stesso risultato, quando si trovarono di fronte a una scena che appariva fuori posto in un mondo dove regnava un ordine così assurdo.

Sotto di loro si stendeva un’ampia vallata; sparse qua e là, le solite cupole impenetrabili. Al centro c’erano le tracce inconfondibili di una grande esplosione. Un’esplosione che aveva proiettato frammenti per miglia all’intorno e scavato un enorme cratere nel terreno.

Accanto al cratere c’era il relitto di una nave spaziale.

21

Atterrarono vicino al teatro di quell’antica tragedia e si avviarono lentamente, facendo economia di fiato, verso l’immenso scafo semidistrutto che torreggiava davanti a loro. Della nave non restava che una sezione, forse la prua o la poppa; tutto il resto doveva essere andato perduto al momento dell’esplosione. Mentre si avvicinavano al relitto, un pensiero si formò nella mente di Alvin, e a poco a poco divenne certezza.

«Hilvar» disse, faticando a parlare e camminando nello stesso tempo

«questa è la nave che era atterrata sul primo pianeta, non credi?»

Hilvar si limitò ad annuire. Non voleva sprecare fiato. Anche a lui era venuta la stessa idea. Si augurò che quella lezione pratica di prudenza avesse un certo effetto su Alvin.

Raggiunsero lo scafo e ne esaminarono l’interno. Era come guardare in un grande edificio che fosse stato tagliato rozzamente in due parti. Nel punto in cui era avvenuta l’esplosione, i pavimenti, i soffitti e le pareti sembravano formare un disegno di sezione dello scafo. Quali strani esseri, si domandava Alvin giacevano ancora dove la morte li aveva raggiunti durante l’esplosione?

«Non capisco» osservò improvvisamente Alvin. «Questa parte della nave è tremendamente danneggiata, ma è praticamente intatta. Dov’è l’altro pezzo? Che l’astronave si sia spezzata in due nello spazio e questa sezione sia stata proiettata qui?»

Solo dopo avere mandato di nuovo il robot in esplorazione, e avere loro stessi battuto la zona attorno al relitto, trovarono la risposta. Non c’era ombra di dubbio; anche la più piccola riserva mentale fu bandita appena Alvin trovò una fila di tumuli sulla collina oltre la nave.

«Dunque atterrarono qui» mormorò Hilvar «e trascurarono l’avvertimento. Erano curiosi, proprio come te, e tentarono di aprire quella cupola.»

Indicò l’involucro tondeggiante al lato opposto del cratere, entro il quale gli abitanti del pianeta avevano celato i loro tesori. L’involucro non era più una cupola: era una sfera completa, poiché il terreno in cui affondava per metà era stato smosso dall’esplosione.

«Così danneggiarono la nave e molti di loro rimasero uccisi. Ma nonostante questo, riuscirono a riparare parte dello scafo e ripartirono, tagliando via questa sezione e asportandone tutto ciò che poteva essere utilizzabile.

Che impresa dev’essere stata!»

Alvin lo udiva appena. Fissava intento la strana insegna che l’aveva condotto alla scoperta dei tumuli: un’asta sottile in cui, a tre quarti dalla cima, era infisso un disco orizzontale. Quel segno, per quanto strano potesse essere, Alvin lo capiva perfettamente.

Sotto quelle pietre c’era la risposta ad almeno una domanda: bisognava però disturbare dei morti. La domanda poteva restare in sospeso: chiunque fossero stati quei poveri esseri, si erano guadagnati il diritto di riposare.

Mentre tornavano verso la nave, Hilvar sentì l’amico sospirare tra sé:

«Spero che gli altri siano tornati a casa».

«E ora?» chiese Hilvar quando furono di nuovo nello spazio.

Alvin fissò pensoso lo schermo prima di rispondere. «Pensi che dovrei tornare indietro?» disse poi. «Sarebbe la soluzione più logica. Non è detto che la fortuna continui ad assisterci, e non sappiamo quali altre sorprese ci riservino questi pianeti.»

Era la voce del buon senso e della prudenza, e adesso Alvin era preparato a darle più credito di quanto avrebbe fatto pochi giorni prima. Ma aveva fatto tanta strada e aveva atteso tutta la vita questo momento; non voleva ancora arrendersi, c’era tanto da vedere.

«D’ora in poi resteremo nella nave» promise «e non tenteremo neppure di atterrare. Dovrebbe essere una precauzione sufficiente.»

Hilvar si strinse nelle spalle, come se non volesse assumersi nessuna responsabilità per ciò che poteva accadere. Visto che Alvin cominciava a diventare più prudente, non stimò saggio lasciargli capire che anche lui moriva dalla voglia di continuare l’avventura, anche se aveva ormai abbandonato la speranza di incontrare forme di intelligenza su quei pianeti.

Di fronte avevano due mondi, un grande pianeta con il suo piccolo satellite. Il pianeta poteva essere il gemello del secondo mondo che avevano visitato. Tutta la superficie era ricoperta della stessa coltre di verde. Atterrare non sarebbe stato di nessuna utilità, ormai lo sapevano.