Alvin parve imbarazzato, e Seranis ebbe pietà.
«Voglio dire che per quanto Vanamonde abbia una mente colossale, e forse infinita, è ancora immaturo. La sua intelligenza è inferiore a quella di un essere umano, anche se il suo processo di pensiero è rapidissimo, e impara con grande facilità. Possiede anche dei poteri che non riusciamo ancora a comprendere. L’intero passato è aperto alla sua mente, in un modo difficile da definire. Forse si è servito di questa capacità per rintracciare la rotta per la Terra.»
Alvin rimase in silenzio, vinto. In quel momento si rese conto quante ragioni avesse avuto Hilvar di portare Vanamonde a Lys. E quanta fortuna avesse avuto lui, una volta, nell’ingannare Seranis. Cosa che non gli sarebbe certamente riuscita una seconda volta.
«Volete dire che Vanamonde è appena nato?» domandò.
«In rapporto alla sua natura, sì. In realtà è antichissimo, sebbene più giovane dell’Uomo. Lo strano, poi, è che insiste nell’asserire che l’abbiamo creato noi. Senza dubbio la sua origine è legata ai grandi misteri del passato.»
«Dov’è ora?» s’informò Hilvar, con un certo tono di possesso.
«Gli storici di Grevarn lo stanno interrogando. Stanno cercando di tracciare le linee essenziali del passato, ma l’impresa richiede anni. Vanamonde sa descrivere tutto quello che è stato nei minuti particolari, senza però capire quello che descrive; è un affare serio interpretare quel che dice.»
Alvin si chiese come Seranis sapesse tutto ciò; poi si rese conto che in quel momento tutte le menti di Lys stavano seguendo i progressi della grande ricerca. Provò un senso di orgoglio al pensiero di aver prodotto sensazionali novità sia a Lys, sia a Diaspar, ma all’orgoglio si mescolava un senso di avvilimento. A Lys c’era qualcosa che non avrebbe mai potuto condividere né capire: il contatto diretto tra mente e mente era per lui un mistero, proprio come la musica per un sordo o il colore per un cieco.
Quelli di Lys stavano scambiandosi pensieri con l’essere inimmaginabile e assurdo mentre lui, che l’aveva conquistato alla Terra, non avrebbe mai potuto comprenderlo, con nessuno dei suoi sensi.
Lì non c’era posto per lui; quando l’indagine fosse finita, gli avrebbero comunicato i risultati. Aveva spalancato i cancelli dell’infinito, ma adesso era invaso dal timore, forse dalla paura, di ciò che aveva fatto. Per la sua stessa tranquillità doveva tornare al piccolo e familiare mondo di Diaspar, cercarvi rifugio dopo aver realizzato i suoi sogni e le sue ambizioni. C’era dell’ironia in tutto questo: colui che aveva disprezzato la città per avventurarsi tra le stelle stava per tornare a casa come un bimbo spaventato che corre tra le braccia della mamma.
23
Diaspar non fu troppo compiaciuta di rivedere Alvin. La città era ancora in fermento, come un gigantesco alveare percosso violentemente da un bastone. Diaspar era ancora riluttante ad accettare la realtà, ma coloro che si rifiutavano di ammettere l’esistenza di Lys e del mondo esterno non avevano più posto dove nascondersi. Le Banche Memoria non li accettavano più; invano correvano verso la Sala della Creazione per aggrapparsi ai loro sogni e rifugiarsi nel futuro. La fiamma fredda e dissolvente non era disposta ad accoglierli; non si sarebbero risvegliati tra centomila anni, rinfrancati e dimentichi. Inutile far appello al Computer Centrale, che non voleva render conto delle sue decisioni: gli aspiranti alla pace e al sonno dovevano tornarsene tristemente in città e affrontare i problemi della loro epoca.
Alvin era atterrato alla periferia del Parco, poco lontano dalla Torre del Consiglio. Fino all’ultimo momento non era stato certo di poter portare la nave entro la città, attraverso gli schermi che separavano il cielo di Diaspar dal mondo esterno. Anche il firmamento era artificiale, almeno in parte. La notte, col suo manto stellato, non doveva splendere sulla città per non ricordare all’Uomo ciò che aveva perso; così ci si proteggeva anche dalla tempeste che a volte si scatenavano sul deserto, riempiendo il cielo di vortici di sabbia.
I guardiani invisibili lasciarono passare Alvin, che come vide Diaspar stendersi sotto di lui sentì di essere veramente a casa. Per quanto l’Universo e i suoi misteri potessero attirarlo, quello era il luogo dov’era nato, al quale apparteneva. Non ne sarebbe mai stato soddisfatto, ma vi sarebbe ritornato sempre. Aveva attraversato mezza galassia per scoprire questa semplice verità.
La folla si era già radunata ancor prima che la nave spaziale toccasse terra, e il giovane era ansioso di sapere come i concittadini l’avrebbero accolto. Osservando i loro volti sullo schermo, prima di aprire il compartimento stagno, poteva leggere molte cose. Il sentimento dominante era di certo la curiosità, sentimento di per sé nuovo a Diaspar. Curiosità mescolata all’apprensione, in molti alla paura. «Nessuno», pensava Alvin addolorato,
«sembra contento di rivedermi…»
Il Consiglio, al contrario, lo accolse con grande effusione… ma era tutta cordialità interessata. Tra l’attenzione generale, Alvin parlò del suo volo ai Sette Soli e del suo incontro con Vanamonde. Infine rispose a una quantità di domande, con una pazienza che sorprese parecchio i suoi ascoltatori.
Tutta quella gente, Alvin lo capì subito, si preoccupava soprattutto degli Invasori. Nessuno aveva il coraggio di menzionarli, però, e un evidente disagio si diffuse tra i Consiglieri quando lui stesso affrontò l’argomento.
«Se gli Invasori fossero ancora nell’Universo» spiegò Alvin al Consiglio
«avrei dovuto incontrarli, dato che ero proprio al centro. Ma tra i Sette Soli non c’è segno di intelligenza. Lo avevo compreso prima ancora che Vanamonde me ne desse la conferma. Io credo che gli Invasori si siano allontanati parecchi eoni fa. Infatti Vanamonde, che ha per lo meno l’età di Diaspar, non ne sa niente.»
«Avanzo un’ipotesi» disse uno dei Consiglieri. «Questo Vanamonde potrebbe essere un discendente degli Invasori, cosa che per ora sfugge alla nostra indagine. Forse ha dimenticato le sue origini, ma un giorno potrebbe ricordarle e diventare di nuovo pericoloso.»
Hilvar, che presenziava all’assemblea come semplice spettatore, non aspettò l’autorizzazione a parlare. Era la prima volta che Alvin lo vedeva infuriato.
«Vanamonde ha esaminato la mia mente» scattò «e io ho intravisto qualcosa della sua. La mia gente ha già appreso molto sul suo conto, sebbene non abbia ancora scoperto chi sia. Ma una cosa è certa. È un amico, ed è stato felicissimo di incontrarci. Non abbiamo niente da temere da lui!»
Quello scoppio fu seguito da un breve silenzio. Hilvar si calmò, leggermente imbarazzato, ma da quel momento la tensione nella Sala del Consiglio diminuì. Il Presidente si astenne dal rimproverare Hilvar per l’intromissione, come sarebbe stato suo diritto.
Dal dibattito che seguì, Alvin comprese che il Consiglio era diviso in tre partiti. I conservatori, che erano una netta minoranza, speravano ancora che si potesse tornare indietro e che in un modo o nell’altro si potesse restaurare l’antico ordine. Sordi a ogni ragione, si ostinavano a credere che Lys e Diaspar potessero reciprocamente dimenticarsi.
Anche i progressisti erano una minoranza; ma il solo fatto che ce ne fosse qualcuno sorprendeva piacevolmente Alvin. Non che fossero ai sette cieli per quell’inaspettato sconvolgimento, ma se non altro erano decisi a trarre dalla cosa il miglior partito. Certi andavano tanto in là da osservare che doveva pur esserci un modo di liberarsi dalle barriere psicologiche, anche più insormontabili di quelle materiali, che li costringevano da tanto tempo a Diaspar.
La maggioranza, infine, era formata da coloro che si tenevano in un atteggiamento di vigile cautela. Gente che, avendo capito quanto fosse inutile fare piani o assumere un atteggiamento deciso, preferiva aspettare gli eventi e lasciare che la tempesta si calmasse.