Fatti pochi passi, si rese conto che Alystra non lo seguiva. Era rimasta immobile, con le mani al viso, il mantello che sbatteva al vento. Vide che muoveva le labbra, ma il suono delle parole non lo raggiunse. Alvin la guardò dapprima meravigliato, poi con impazienza e compatimento. Jeserac aveva detto la verità: lei non poteva seguirlo; aveva capito dove s’affacciava quell’altra apertura. Alle spalle c’era il mondo conosciuto, pieno di meraviglie ma privo di sorprese, vivido come una brillante bolla incatenata al fiume del tempo. Laggiù, a solo un centinaio di metri, c’era il deserto, il mondo spaventoso, il mondo degli Invasori.
Alvin le si accostò, e notò, sorpreso, che la ragazza tremava. «Di che cos’hai paura?» le chiese. «Qui siamo a Diaspar. Hai guardato da quell’apertura, non c’è niente di pericoloso se ti affacci anche dall’altra.»
Alystra continuava a fissarlo come se fosse stato uno strano mostro. E, in base al suo metro, lui lo era veramente.
«Non posso. Il solo pensiero mi fa rabbrividire più di questo vento. Non proseguire, Alvin!»
«Ma è illogico! Cosa vuoi che ti succeda se arrivi alla fine di questo corridoio e guardi fuori? Vedrai un posto strano e solitario, ma niente di orribile. Anzi, ogni volta che lo guardo lo trovo sempre più bello…»
Alystra non lo lasciò terminare. Si voltò di scatto e fuggì giù per la lunga rampa tortuosa che li aveva condotti là in cima. Alvin non tentò nemmeno di fermarla. Imporre la propria volontà era cosa mal fatta; usare la persuasione, inutile. Sapeva che non si sarebbe fermata finché non avesse ritrovato i suoi compagni. Non c’era pericolo che si perdesse nei labirinti della città, dato che le sarebbe stato facile ripercorrere il cammino fatto nel venire. Trovare il cammino anche nel più complesso groviglio era una qualità che l’uomo aveva acquisito da quando aveva cominciato a vivere nelle città. I topi, ormai da lungo estinti, erano stati costretti a imparare la stessa cosa quando avevano dovuto abbandonare i campi per vivere accanto all’uomo.
Alvin aspettò un attimo, quasi nella speranza che Alystra tornasse. Non era rimasto sorpreso per la reazione della ragazza; ciò che lo aveva stupito erano state la violenza e l’irrazionalità del suo gesto. Gli spiaceva che l’amica se ne fosse andata, ma non poté fare a meno di pensare che avrebbe potuto almeno restituirgli il mantello.
Non solo faceva freddo, ma era faticoso avanzare contro il vento che fischiava attraverso i polmoni della città. Alvin combatté sia contro la corrente d’aria sia contro la forza che la manteneva in movimento. Alla fine raggiunse la grata opposta, e si appoggiò per riposare. C’era appena lo spazio per infilare la testa in una delle aperture.
Tuttavia poteva vedere abbastanza. Parecchie migliaia di metri al di sotto si stendeva il deserto. Il sole era al tramonto, e i raggi quasi orizzontali battevano contro la grata di pietra riempiendo d’oro e di ombre l’inizio della galleria. Alvin batté le palpebre, abbagliato, e sbirciò la terra su cui nessuno aveva più camminato da ere antichissime.
Era come se stesse guardando un oceano eternamente ghiacciato. Per chilometri e chilometri le dune si stendevano verso ovest, i contorni ingigantiti dalla luce radente. Qua e là il vento scavava buche e creava vortici, e a volte era difficile convincersi che quelle sculture non erano opera di una intelligenza umana. Molto lontano, tanto da non poter giudicare la distanza, sfumavano i contorni di una fila di basse colline. Quelle colline erano state una delusione per Alvin, che avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poter vedere le aspre montagne contemplate solo in proiezione e nei propri sogni.
Il sole era ormai sospeso sull’orlo delle colline, con i raggi indeboliti e fatti rossi dallo spessore dell’atmosfera. Sul disco si vedevano due grosse macchie nere; Alvin ne aveva appreso l’esistenza attraverso i suoi studi, ma non aveva sperato di poterle distinguere così facilmente. Sembravano due occhi che lo osservavano spiare attraverso la finestra colpita incessantemente dal vento.
Non ci fu crepuscolo. Appena scomparso il sole, le macchie d’ombra che affioravano da dietro le dune si allargarono, seppellendo la pianura in un unico lago buio. I colori scomparvero. Il rosso e l’oro svanirono a poco a poco nel cielo, lasciandovi un azzurro che si fece sempre più cupo, finché fu notte. Alvin aspettava quel miracoloso momento in cui avrebbero cominciato a tremolare le prime stelle.
Erano passate molte settimane da quando era stato lì l’ultima volta. Sapeva che doveva essere avvenuto qualche cambiamento nella volta celeste, ma non era preparato a contemplare i Sette Soli.
Non potevano avere altro nome; la frase gli venne spontanea sulle labbra. Formavano un gruppo grazioso, compatto, incredibilmente simmetrico. Sei erano disposti in un’ellisse leggermente schiacciata che, Alvin ne era certo, era in realtà un cerchio perfetto, un pochino inclinato rispetto alla linea dello sguardo. Ogni stella aveva un colore diverso; Alvin distingueva il rosso, l’azzurro, il giallo e il verde, ma non riusciva a individuare le altre tinte. Proprio al centro dell’anello c’era una singola stella bianca gigante, la più luminosa di tutto il firmamento. La costellazione sembrava opera di un gioielliere; era addirittura incredibile, al di là di tutte le leggi del caso, che la Natura potesse avere creato una disposizione così perfetta.
A mano a mano che i suoi occhi si abituavano al buio, Alvin riuscì a individuare il grande velo nebbioso che era chiamato un tempo Via Lattea.
Si stendeva dallo zenit al limite dell’orizzonte, avvolgendo tra le sue pieghe i Sette Soli. Ora le altre stelle si erano fatte più luminose, e i loro gruppi sparsi aumentavano l’enigma di quella perfetta simmetria. Era come se una misteriosa forza avesse voluto sfidare il disordine naturale dell’universo collocando la propria opera tra le stelle. Dieci volte, non di più, la galassia aveva girato sul proprio asse dal giorno in cui l’uomo aveva messo piede sulla Terra. Per lei non era che un attimo. Tuttavia in questo breve periodo era cambiata completamente, molto più di quanto non le fosse lecito nel naturale corso degli eventi. I grandi soli che una volta, nel vigore della giovinezza, avevano brillato con violenza, erano ormai spenti. Ma Alvin non aveva mai visto l’antico splendore dei cieli, e non poteva sapere di tutte le cose che si erano perse.
Il freddo gli serpeggiava nelle ossa. Doveva tornare in città. Si staccò dalla grata e si massaggiò gli arti per ristabilire la circolazione. Di fronte a lui, all’estremità del corridoio, la luce che proveniva da Diaspar era tanto brillante da costringerlo a ripararsi gli occhi con una mano. All’esterno della città esistevano cose quali il giorno e la notte, ma tra le mura c’era il giorno eterno. Con il calare del sole il cielo sopra Diaspar si riempiva di luci, e nessuno poteva mai accorgersi che l’illuminazione naturale era cessata. Avevano eliminato il buio dalla città ancora prima che l’uomo avesse perso il bisogno di dormire. La sola notte che si conoscesse a Diaspar calava sul Parco, quando in certe occasioni lo si voleva trasformare in un luogo di mistero.
Alvin attraversò lentamente la sala degli specchi. La sua mente era ancora rivolta alla notte e alle stelle. Si sentiva esaltato e insieme depresso. Pareva non esserci alcuna via per fuggire verso quella sconfinata solitudine, né alcuna ragione logica per tentare. Jeserac gli aveva detto che vivere nel deserto non era possibile, e Alvin gli credeva. Se anche fosse riuscito, un giorno o l’altro, a lasciare Diaspar, tutto si sarebbe risolto in un’avventura.
Un’avventura che avrebbe dovuto vivere da solo, e che non lo avrebbe portato in nessun posto. Tuttavia, quell’avventura lo avrebbe forse guarito dalla sua inquietudine.