Alvin, che non aveva voglia di ritornare subito nel suo mondo, indugiò un poco nella stanza degli specchi. Si fermò davanti a uno dei più grandi e osservò la scena che si svolgeva all’interno. Il meccanismo che produceva le immagini era controllato dalla sua presenza, e, fino a un certo punto, anche dai suoi pensieri. Gli specchi erano sempre vuoti quando una persona entrava nella stanza, ma si riempivano di movimenti non appena la persona cominciava ad avanzare.
Gli parve di trovarsi in una lunga corte, che lui non aveva mai visto ma che probabilmente esisteva in qualche punto di Diaspar. Era incredibilmente affollata. Due uomini gesticolavano su una piattaforma elevata, e di tanto in tanto coloro che stavano attorno facevano energici cenni affermativi. Il silenzio completo aggiungeva fascino alla scena, perché la fantasia si metteva immediatamente al lavoro tentando di immaginare suoni adatti.
Cosa stavano discutendo? Alvin cercò di immaginarlo. Forse non era una vera scena del passato, ma soltanto un episodio creato dalla fantasia. Il modo in cui erano disposte le persone, e i loro gesti, facevano pensare che non si trattasse di vita reale.
Osservò le facce delle persone, cercando di riconoscere qualcuno. Ma tutti gli erano sconosciuti. Quante variazioni di fisionomia umana potevano esserci? Il numero doveva essere enorme, ma finito, specialmente dal giorno in cui erano state eliminate tutte le variazioni antiestetiche.
Le persone nello specchio continuarono la loro silenziosa discussione, ignorando l’immagine di Alvin che si era introdotta tra loro. A volte era difficile credere di non far parte della scena, perché l’illusione era perfetta.
Quando uno dei fantasmi si spostava dietro Alvin, spariva, come sarebbe avvenuto nella vita reale… Ma se qualcuno passava di fronte a lui, allora era lui che spariva dall’immagine.
Alvin stava per andarsene, quando scorse un individuo stranamente vestito che si teneva in disparte. I suoi movimenti, gli abiti… tutto in lui sembrava fuori posto. Era come Alvin, l’anacronismo della scena.
Ma era anche molto di più. Era un essere reale, e stava fissando Alvin con espressione lievemente canzonatoria.
5
Alvin, che nella sua giovane esistenza aveva incontrato al massimo un millesimo degli abitanti di Diaspar, non fu sorpreso di trovarsi di fronte uno sconosciuto. Si sorprese, invece, di incontrare un essere vivente in quella torre solitaria, così vicino alle frontiere del mondo esterno.
Girò le spalle al mondo dello specchio e fissò lo sconosciuto, ma prima che Alvin potesse aprir bocca, l’altro gli aveva già rivolto la parola.
«Sei Alvin, vero? Quando mi sono accorto che qualcuno frequentava la torre, avrei dovuto immaginare che si trattava di te.»
L’osservazione non aveva niente di offensivo; era una semplice constatazione, e Alvin l’accettò come tale. Il giovane non si meravigliò d’essere stato riconosciuto: la sua unicità l’aveva reso noto a tutti i cittadini di Diaspar.
«Io sono Khedron» continuò l’altro, come se quel nome spiegasse ogni cosa. «Mi chiamano il Buffone.»
Alvin lo guardò interrogativo, e Khedron si strinse nelle spalle con comica rassegnazione.
«Caspita, come sono famoso! Be’, tu sei giovane e da quando sei al mondo non ci sono state burle. La tua ignoranza è scusabile.»
Khedron aveva un che d’insolito, di piacevole. Alvin non riusciva a ricordare il significato della parola buffone. Gli rammentava vagamente qualcosa, ma non riusciva a ricordare cosa fosse. C’erano infiniti titoli nella complessa struttura sociale della città e ci voleva una vita per impararli tutti.
«Vieni qui spesso?» chiese, un po’ geloso. Si era abituato a considerare la Torre di Loranne come una proprietà personale, ed era un po’ seccato all’idea che qualcun altro conoscesse quel posto meraviglioso. Ma, si domandò, Khedron aveva mai avuto il coraggio di osservare il deserto, o le stelle che brillavano nel cielo?
«No. Non sono mai venuto qui prima d’ora. Ma mi diverto a scoprire tutto ciò che d’insolito accade in città, ed erano secoli che nessuno visitava più questa torre.»
Alvin si domandò come facesse Khedron a sapere delle sue precedenti visite, ma subito abbandonò il pensiero. Diaspar era piena di occhi, di orecchie, e di altri più sottili sensi che tenevano la città informata su quanto avveniva all’interno. Chiunque, sufficientemente interessato, avrebbe potuto trovare il modo di mettersi in collegamento con uno di questi canali.
«Ammesso che si tratti di un avvenimento fuori dell’ordinario, come mai ti interessa?»
«Mi interessa perché l’originalità è la mia prerogativa. Ti ho notato da molto tempo. Sapevo che un giorno ci saremmo incontrati. Sono unico anch’io, in un certo senso. Non come te, questa non è la mia prima vita. Io sono già entrato e uscito migliaia di volte dalla Sala della Creazione, ma alle origini fui scelto come Buffone, e a Diaspar non rinasce mai più di un Buffone alla volta. La gente pensa che uno sia anche troppo.»
Il tono ironico di Khedron sconcertò Alvin. Non era molto educato rivolgere domande personali, ma in fin dei conti era stato Khedron a toccare l’argomento.
«Scusa la mia ignoranza, ma chi è e cosa fa un Buffone?»
«Mi chiedi «cosa» fa» ribatté Khedron. «Dovrò prima spiegarti «perché»
esiste. È una storia lunga, ma forse ti interesserà.»
«Tutto mi interessa» assicurò Alvin con calore.
«Benissimo. Gli uomini che idearono Diaspar, se sono stati degli uomini, e a volte ne dubito, si trovarono a dover risolvere un problema incredibilmente complesso. Diaspar, come sai, non è soltanto una macchina, è un organismo vivente e immortale. Noi siamo così abituati alla società in cui viviamo da non renderci conto di quanto sarebbe sembrata strana ai nostri progenitori. Il nostro mondo è piccolo e limitato, e non cambia mai se non in alcuni dettagli trascurabili. La sua stabilità è perfetta. Questo mondo è durato più a lungo di tutto il resto della storia dell’umanità, eppure in quella storia sono esistite, o almeno così si crede, infinite migliaia di culture e di civiltà che duravano per un certo tempo e poi tramontavano. Come ha potuto Diaspar raggiungere una così straordinaria stabilità?»
Alvin era meravigliato che qualcuno potesse porsi una domanda tanto semplice, e la sua speranza di imparare qualcosa di nuovo si affievolì.
«Grazie alle Banche Memoria, si capisce» replicò. «Diaspar si compone sempre della stessa gente, anche se i gruppi si alternano.»
Khedron scosse la testa.
«Questa è solo una piccola parte della risposta. Pur disponendo degli stessi individui, si possono creare sistemi sociali completamente diversi.
Non posso provartelo e non ho un esempio diretto, ma ne sono certissimo.
I creatori della città non solo fissarono quale avrebbe dovuto essere la popolazione, ma fissarono anche le leggi che ne avrebbero regolato la condotta. Noi non ci rendiamo conto dell’esistenza di queste leggi, eppure obbediamo a esse. Diaspar è una cultura congelata, che può cambiare solo entro stretti limiti. Le Banche Memoria conservano molte altre cose oltre gli schemi dei nostri corpi e delle nostre responsabilità. Conservano l’immagine stessa della città, mantenendone rigido ogni atomo a dispetto di qualsiasi cambiamento che il Tempo potrebbe portare. Guarda questo pavimento! Esiste da milioni di anni ed è stato calpestato da innumerevoli piedi. Mostra forse qualche segno di vecchiaia? La materia, per quanto dura, avrebbe dovuto consumarsi già da moltissimo tempo. Ma finché esisterà la forza che alimenta le Banche Memoria e finché le matrici conservate nelle Banche potranno esercitare un controllo sugli schemi della città, la struttura fisica di Diaspar non cambierà mai.»
«Ci sono stati dei cambiamenti» protestò Alvin. «Da quando esiste la città molti edifici sono stati abbattuti e altri ne sono sorti al loro posto.»