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Per scendere non prese il buco più vicino com’era sua abitudine da bambina, bensì una più comoda scala di marmo che aveva inizio nel mondo superiore come anonima rampa di scale; dietro la porta di una cantina. Quando fu sotto, Faey la rimproverò per il ritardo, ma era troppo indaffarata per stare a chiederle spiegazioni. Un gentiluomo del palazzo aveva inviato una richiesta, insieme a una somma adeguata in monete d’oro, per poter individuare i veleni. Mag sospirò. Quello sarebbe stato un pomeriggio puzzolente.

Verso sera ebbero altro lavoro. Due giorni più tardi Mag andò a sedersi sulla riva del fiume, davanti alla casa di Faey, e con occhi stanchi guardò le acque scure che scorrevano lente. Sulla riva erano appese lampade in ferro battuto e di forma fantasiosa, provenienti da palazzi e carrozze e galeoni, che Faey accendeva quando si ricordava di farlo. La loro luce si spandeva sul fiume e illuminava debolmente altre case che si disfacevano in quell’umida penombra, edifici un tempo eleganti, con camini massicci, dai colori pastellosi. I tetti di alcuni arrivavano fino a sostenere le strade sovrastanti. Dalle loro stanze sigillate provenivano a volte pallide luci, e ombre umane si muovevano come sogni oltre le tende di seta delle finestre.

La città sotterranea si estendeva in caverne laterali, lungo affluenti sormontati da ponti, fluttuando verso distanze prive di orizzonte, e le sue strade s’interrompevano su baratri nei quali, molto più in basso, altre luci palpitavano sulle acque buie.

Anche lì, Mag poteva sentire l’odore degli incantesimi nella spiegazzata veste di taffettà color avorio che indossava. Lo sentiva sulla sua pelle. Gli incantesimi erano chiusi in piccole costose scatole, pronti a essere usati. Inghiotti questo, e nulla di ciò che mangi e bevi ti nuocerà. Srotola questo e appendilo alla soglia di casa; nessuno riuscirà a oltrepassarla. Tieni questo accanto a te, la notte; emetterà un grido se avverte la presenza del pericolo. Domina Pearl li avrebbe scoperti, quegli ostacoli stregati, e avrebbe mandato la sua richiesta a Faey: un incantesimo per sventare tutti gli incantesimi.

Come aveva detto Faey, nessuno avrebbe vissuto per lamentarsi. Mag represse uno sbadiglio e contemplò un dito di sole che, dallo squarcio lontano di una fognatura, scendeva sull’acqua. Lei avrebbe trovato un punto debole in quell’incantesimo per farlo fallire, decise. La Perla Nera non l’avrebbe avuta vinta così facilmente. Sopra di lei, il selciato rumoreggiava al passaggio continuo delle carrozze con gli sportelli ornati di nastri neri, dirette al solenne funerale che avrebbe messo fine al lugubre canto delle campane.

«Mag!» chiamò Faey, dall’interno della casa o della mente di lei; Mag era troppo stanca per capire quale delle due.

«Vengo», rispose, ma esitò ancora un po’, con gli occhi socchiusi, scrutando la riva ombrosa in cerca del posto dove una donna avrebbe potuto distendersi, anni addietro, per partorire una bambina dagli occhi castani e lasciarla lì nel buio, a vagire nella città dimenticata, finché la maga della città era scesa dal letto, plasmando il suo antico volto in qualche forma riconoscibile, ed era andata a vedere cosa stesse disturbando il suo sonno.

«Mag! Mia bambolina di cera! Ho bisogno di te ora, non domani.»

Oppure sono stata trovata abbandonata su un marciapiede, di sopra, e venduta, insieme a un secchio di salamandre e qualche radice di mandragora, per poche monete, alla maga che vive nel sottosuolo? si chiese Mag.

Infine si alzò. «Sto arrivando.»

«Devi tornare fuori», disse Faey, e le diede una lista. «Al tuo ritorno, potrai riposarti. Le ultime cose posso farle da sola.» Poi annusò l’aria. Non era una sensitiva, ma i suoi incantesimi erano di solito molto potenti. Le palpebre le cadevano sugli occhi per la stanchezza, come mezzelune sempre più grosse, tuttavia si muoveva con aria indaffarata prendendo questo e quello. «Cambiati d’abito e lavati, mia bambola di cera. Una signora dovrebbe voler profumare di rose, non di zolfo.»

Rosa e Spina, pensò Mag.

Un paio d’ore più tardi, finito di fare le commissioni e chiesto alla maga il permesso di uscire, Mag andò a sedersi tra gli avventori della Rosa e Spina. Vestiva di nero, come tutti loro. L’intera città era vestita a lutto, non solo per la morte del principe, ma per piangere con grande tristezza le belle speranze sepolte con lui. Nel suo abito di broccato, così antico che i ricami in filo d’argento si erano anneriti, Mag era scarsamente visibile dietro la lunga veletta nera appuntata al cappello. Quelli che notavano la sua vita snella e le dita eleganti lasciate scoperte dai mezzi-guanti di pizzo, dopo aver cercato invano di scorgere qualcosa di più sotto quel nero, riportavano lo sguardo sui loro boccali, a disagio. La ragazza della taverna, con lo sguardo annebbiato per la mestizia e l’incessante clangore delle campane, zoppicò verso il tavolo di Mag. Anche lei parve stupita dall’abbigliamento di quell’insolita cliente.

«Cosa posso servirvi…» All’improvviso vide il tacco cosparso di zaffiri luccicare sotto il velo nero, e la voce le si bloccò.

«Ti ho portato l’altra scarpa», disse sottovoce Mag. L’attenzione della ragazza si spostò sull’opale nero montato in oro e incorniciato da piccole perle azzurre, all’indice sinistro di Mag. Chiuse gli occhi come se le bruciassero. Mag aggiunse: «E anche questo ti appartiene. L’ho preso a un marinaio. Gli altri anelli sono andati persi».

Lo sguardo della donna passò dall’anello al viso oscurato dal velo nero. «Sei stata tu», sussurrò, «ad aiutarmi, l’altra notte. È per questo che sono sopravvissuta, nelle strade. Ma come hai fatto? E perché mi hai aiutato?»

Mag, che non aveva ancora smesso di farsi quelle domande, scrollò le spalle, ma subito dopo trovò le risposte. «Qualche volta mi piace occuparmi dei fatti degli altri», ammise, semplicemente. «E detesto Domina Pearl. Ero nascosta tra i girasoli al cancello occidentale, quando lei ti ha buttato fuori dal palazzo.»

La ragazza sembrò cercare d’indovinare la forza e l’agilità che si celavano sotto il broccato e i pizzi.

«Ma come hai fatto?» ripeté.

Mag estrasse dal cappello uno spillone, e pigramente ne toccò la punta con un dito. La ragazza aprì la bocca, ma non riuscì a dir parola. In silenzio guardò Mag rimettere lo spillone al suo posto.

«Lydea!» latrò il gestore della taverna da dietro il bancone. «Prendi l’ordinazione della signora, e porta al tavolo questa birra prima che perda la schiuma.»

Lydea cambiò posizione da un piede bendato all’altro, ma non si voltò. Bruscamente chiese: «Dove posso trovarti, più tardi? Lui mi sta facendo scontare i miei peccati col lavoro. Comincio a dubitare che potrò vivere abbastanza da andare in pari con lui».

«Che cos’è quell’uomo per te?»

«È mio padre.»

Mag lo esaminò, incuriosita. «Io non ho mai avuto un padre.»

«Non hai perso molto, credimi. Ma sono in debito con lui per avermi tenuta qui, quella notte. E devo molto anche a te, a quanto pare. Dove abiti?»

Vivo nel sottosuolo con una maga di nome Faey, pensò Mag. Prima quel fatto non l’aveva mai sorpresa, ma gli occhi stanchi e preoccupati di Lydea che cercava di vederla meglio nell’ombra sotto la veletta la sconcertarono. La gente sapeva solo in modo vago che lei apparteneva a Faey. Nessuno le aveva mai chiesto di spiegare chi era in termini umani. Debolmente rispose: «Non è un posto facile da trovare».

«Oh.»

«Però tu potresti aiutarmi, ora.»

«In che modo?» domandò subito Lydea.

«Quando abitavi a palazzo devi aver conosciuto Ducon Greve. Merita di essere salvato?»