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«Siete ubriachi, per caso?» domandò. «Voi non avete un’idea di quanto sia pericolosa. Può darsi che non viviate abbastanza per tornare ai vostri letti, questa notte.»

La mano che lo afferrò per una spalla era quella forte e decisa del cugino dagli occhi blu. «Libera Ombria dalla Perla Nera. Aiutaci a riavere la nostra città. Tu lo farai, se sei un vero erede della Casa di Greve. Oppure morirai nel tentativo. Trova il modo, Ducon Greve.»

«Kyel…»

La mano s’indurì. «Lascialo perdere», disse sottovoce il cugino. «Non pensare a lui. Fai quello che devi per salvare Ombria. Quella donna non deve avere potere su di te attraverso il bambino. Non deve dominarti usandolo come ostaggio. Agisci per te stesso e per Ombria, non per lui. Lei ha messo le mani sul cuore del bambino, e ci metterà radici. Ti conviene aver paura di lui. Kyel potrebbe portarti alla morte.»

Lui si scostò da quella fervida presa, e guardò la nave. «Quella potrebbe portarci alla morte tutti quanti.»

«Devi darci una risposta, adesso.» C’era sia una minaccia, sia una supplica in quella richiesta.

Lui abbassò lo sguardo. Attraverso le assi spaccate del molo vide gli ultimi riflessi del sole al tramonto morire tra le acque torbide, mentre su di loro scendevano le ombre della sera. «Andatevene a casa», disse. «Dimenticate tutto ciò che mi avete detto. Quando avrò bisogno di voi, vi troverò. Ho disegnato tutte le vostre facce.»

Vide che questo li lasciava di malumore e insoddisfatti, ma non c’era niente che qualcuno di loro potesse fare, e si avvicinava la notte di Ombria. Li seguì verso la banchina, dove i pilastri del molo spuntavano dalla sabbia. Uno strano refolo scuro gli fece abbassare lo sguardo, e scrutando attraverso un buco tra le assi ebbe l’impressione che un’ombra si spostasse sotto di lui. Ma era già scomparsa prima che se ne accorgesse, e quando andò a guardare giù oltre il bordo del molo non vide impronte sulla sabbia.

6

Scarpe da ballo

Nell’accorgersi che le campane di Ombria avevano smesso di suonare, Lydea non poté trattenere le lacrime.

Stava portando un vassoio di birra e carne di montone a un tavolo di gente vestita a lutto, che invece di uscire per recarsi al funerale aveva preferito restare nella taverna.

Gli avventori parlavano in tono lugubre e saccente del principe defunto, quando il vassoio piombò sul tavolo e la ragazza scoppiò improvvisamente in singhiozzi, selvaggi e inconsolabili. Piangeva per le carezze di Royce e il suo sorriso, per i morbidi capelli di Kyel sotto la sua mano, e per i suoi occhi quando gli raccontava le favole; piangeva per quel perduto amore, per la morte di sua madre, per l’incapacità del padre di trovarle una parola gentile, e per i suoi piedi doloranti e insanguinati. Si tolse il berretto e lo usò per asciugarsi il viso. Gli avventori si stupirono nel vedere i capelli caderle fino alle ginocchia. Piangeva per il principe-bambino di Ombria, solo e in pericolo, per la città di Ombria, per la crudeltà della Perla Nera, per le scarpe che non avrebbe indossato mai più, per la sua innocenza perduta. Non vide la birra che aveva sparso sulla carne di montone, né le facce accigliate e perplesse intorno al tavolo.

Poi sentì su un braccio la mano di qualcuno che la portava via. Barcollò sui suoi poveri piedi feriti fino al bancone e sedette dietro di esso, nell’angolo poco illuminato dove suo padre ammucchiava i grembiuli e le tovaglie sporche, e pianse anche per gli anni ormai usciti dalla sua vita, quelli che aveva lasciato dietro di sé a palazzo quando Domina Pearl l’aveva spinta fuori sbattendo il cancello di ferro alle sue spalle.

Infine si sentì come svuotata, una cosa inerte. Restò appoggiata all’indietro contro il legno consunto, lasciando che qualche lacrima le cadesse ancora dagli occhi gonfi e indolenziti. Nella taverna c’era un silenzio insolito, ma non tutti i clienti se n’erano andati a causa sua. Sentì suo padre che si lamentava con qualcuno in tono accidioso, tra rumori di posate e di peltro.

«Non so cosa fare con lei», stava dicendo l’uomo. «Quella ragazza non è né carne, né pesce. Non è più quella che era una volta, e non appartiene né al palazzo, né alla città.»

Ci fu un rutto. Una voce rude che lei riconobbe come quella del macellaio della bottega di fronte suggerì, in tono sicuro: «Dovresti maritarla. Questo la farà tornare al suo posto».

«Maritarla con chi? E con quali risultati? Lei ha vissuto per cinque anni come concubina del principe, e ora è tornata qui a lavare boccali di birra. Là era una sguattera di taverna travestita da principessa, e qui è una principessa travestita da sguattera di taverna. Una volta conosceva il lavoro per cui era nata. Ora non riesce neanche a tenere ordine nella sua testa. Serve la carne al tavolo di chi aveva ordinato birra, e porta via i boccali ancora mezzo pieni da sotto il naso dei clienti. Guarda questa sala. È vuota, nel pomeriggio della veglia per il principe.»

«Devi maritarla», ripeté il macellaio con irritante insistenza.

«A chi?»

«A chiunque. Non importa. Il fabbricante di casse da morto in via delle Assi ha appena perduto sua moglie. E ha cinque figli, il più piccolo dei quali ha messo i denti da poco.»

«Di chi parli? Di quel piccoletto rachitico col naso storto? E ha cinque figli?»

«Cinque figli, e nessuna moglie.»

Lydea raccolse un grembiule sporco e lo usò per asciugarsi gli occhi. Conosceva il fabbricante di casse da morto, un ometto che le arrivava appena al mento, con le narici rivolte all’insù. Quei due buchi neri la seguivano come occhi quando lei passava, come se lui la guardasse col naso. Il suggerimento del macellaio era ridicolo, ma suo padre non aveva tutti i torti. Lei si aggirava per la taverna con la testa tra le nuvole, proprio come avrebbe fatto a palazzo se le avessero permesso di restare.

Si tolse gli zoccoli per dare un po’ di sollievo ai piedi e ricordò dove stava seduta. Frugò nel mucchio di grembiuli e tovaglie finché sentì le scarpe dai tacchi incrostati di zaffiro, ancora nel punto in cui le aveva nascoste.

«Potresti maritarla a uno che conosce questo lavoro», suggerì il macellaio. «Uno che potrebbe darti una mano qui dentro.»

«Io non sono una buona compagnia», tagliò corto suo padre. «Dovresti saperlo. Negli ultimi anni ho dovuto vivere da solo, dopo che mia moglie e mia figlia mi hanno lasciato.»

«Una grave perdita, sì.» Si sentì il rumore della birra che gorgogliava giù per la gola del macellaio.

«Non ho potuto farci niente. Una se ne è andata in una bella carrozza, l’altra in un… be’, non in modo altrettanto elegante. Niente di simile al funerale che hanno fatto oggi in quel mausoleo di marmo di fronte al mare.»

Lydea si coprì il viso con le mani, a quelle parole. I due uomini udirono un rumore simile a stoffa strappata dietro il banco di mescita, e tacquero. Lei inghiottì le lacrime, lottando contro la sofferenza. Suo padre e il macellaio ripresero a parlare sottovoce, quasi con cautela.

«Non avrei mai pensato di rivederla. Ero convinto che avrebbe fatto di tutto per non tornare da queste parti.»

«Avrebbe dovuto farsi sposare.»

«Avrebbe dovuto pensarci. Avrebbe dovuto essere più intelligente, e mettersi dei soldi da parte. Invece, no. Ha fatto tutto per amore, e non ha avuto in cambio niente.»

Lei si rigirò una scarpa tra le dita, alzandola sotto la luce che entrava dai vetri sporchi, e guardò lo scintillio delle gemme.

Io ho qualcosa, pensò. Ho due scarpe da ballo.

Rovistò tra i panni finché trovò anche l’altra. Poi si tirò in piedi dietro il banco di mescita, a piedi nudi, i capelli scarmigliati, e gli occhi — lo sentiva — rossi e gonfi in un volto rigido come una maschera bianca.

Perfino il macellaio, col suo grembiule sporco di sangue, parve a disagio nel guardarla. Subito però i due uomini abbassarono lo sguardo su ciò che aveva in mano. Le gemme riflettevano in ogni direzione raggi di luce azzurra, come se nella taverna fosse caduta una stella.