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Suo padre ci mise un po’ a ritrovare la voce.

«Ma quelli… quelli sulle scarpe…»

«Zaffiri», rispose Lydea. «Le scarpe mi sono state regalate dal principe. Dubito che me le metterò ancora per ballare. Le venderò. Il ricavato servirà per il mio mantenimento, mentre cercherò un altro lavoro. Così non peserò più sulle tue spalle.»

La faccia dell’uomo, dura e corrugata come un guscio di noce fin da quando lei aveva fatto ritorno, espresse un improvviso e addolorato stupore, come se quelle parole l’avessero ferito. Poi il guscio di noce si riformò.

«Tu non le portavi, la notte in cui sei tornata», osservò, burbero. «Come hanno fatto a camminare fin qui, attraverso tutta la città?»

«Le avevo gettate via, fuori dal cancello del palazzo, per poter correre meglio», rispose con fermezza lei. «Qualcuno le ha trovate, e me le ha restituite.»

«Chi?» volle sapere suo padre. «Chi in questa città può permettersi di essere così onesto?»

«E perché lo ha fatto?» domandò il macellaio, sbalordito.

«Una persona…» Lei ripensò al volto giovane che nascondeva segreti, così come quei capelli nascondevano armi ingioiellate. «Non so perché l’abbia fatto. Forse perché voleva che mi fidassi di lei.»

Il macellaio allungò un dito sporco a sfiorare il fine rivestimento di una scarpa, il cui colore era lo stesso delle gemme. «Che cos’è?»

«Seta.»

«E tu hai davvero ballato con queste scarpe?» domandò suo padre meravigliato e insospettito nello stesso tempo, come se ancora non credesse che quegli oggetti fossero veri.

«Una volta.» Lei le depose sul tavolo davanti a loro. «Perciò, vedi, non sono del tutto indifesa. Mi toglierò dai piedi non appena riuscirò a venderle.»

«Con queste scarpe potresti trovare marito», suggerì il macellaio, che continuava a guardare gli zaffiri a occhi spalancati. «Cercane uno, dimentica il principe, e dai qualche nipote a tuo padre.»

«Io non mi sposerò mai», dichiarò Lydea. «Comunque, perché dovrei volere un marito capace di sposare una donna solo per le sue scarpe? Qui in questa taverna io non servo a niente, ma dev’esserci qualcosa che io possa fare per mantenermi.»

Suo padre raccolse una scarpa e la rigirò tra le dita, sotto la luce. «Un tempo tu sapevi cosa fare per vivere.» Poi abbassò gli occhi su di lei, usando distrattamente la scarpa per grattarsi una tempia. «Dopo aver danzato con scarpe così, non sei più fatta per questa vita.»

«Forse no. Ma per aver portato queste scarpe sono stata gettata fuori. E in strada avrebbero potuto uccidermi perché le portavo. Questo posto mi ha salvato. Era la mia unica speranza.»

Lui sbuffò, a quel pensiero. Ma il suo cipiglio era soltanto a fior di pelle, adesso; negli occhi non aveva più la luce dura. «Perché sei rimasta là, se ti trattavano male?»

Lei dovette deglutire, prima di trovare la voce per rispondere. «Royce era buono con me. Ma avevo soltanto lui. Nessun altro e nient’altro, e nessun posto che sentissi mio. Come hai detto tu, ero una sguattera di taverna travestita da principessa. È così che quella gente mi vedeva. Fuorché il principe. E suo figlio. Loro vedevano in me una persona che amavano.»

Ora i due uomini la guardavano in silenzio, con la stessa espressione con cui avevano guardato le sue scarpe.

«Non hanno voluto che tu restassi, neppure per il bene del bambino?» domandò suo padre.

«Lui non voleva che io me ne andassi.» La gola tornava a farle male. «Ma lei ha mandato via la sua bambinaia. Lei ha cominciato a ripulire il palazzo, la notte stessa in cui il principe è morto.»

«Lei?» domandò il macellaio.

«Domina Pearl.»

Quel nome fece accigliare i due, che parvero riflettere sulla vera causa dei foschi presagi sparsi in Ombria dopo la morte del principe. «Domina Pearl», le fece eco cupamente il macellaio. «Ora è lei a governare.» Bevve un lungo sorso, poi domandò: «Di cosa è fatta quella donna? Ho sentito dire che vive da secoli. E che quando starnutisce butta fuori polvere».

«Vivrà ancora per un altro secolo, se nessuno la ferma», disse Lydea. «E non avrà pietà di questa città, non più di quanta ne ha avuto per me.»

«E il bastardo?» domandò suo padre. «Ducon. Lui la combatterà?»

«Non lo so. Per lo più, non fa che disegnare.»

Di nuovo tacquero, guardando il tavolo senza vederlo. Suo padre posò la scarpa che aveva in mano di fianco all’altra, e continuò a osservarle distrattamente. «Prima che tu andassi via di casa non mi avevi mai fatto arrabbiare.»

«Lo so.»

«Ho dovuto aspettare tutto questo tempo per avere un motivo d’irritarmi con te.» L’uomo spinse le scarpe verso di lei. «Trova un altro lavoro, se vuoi. Ma non andartene. Spetta a me imparare a vivere con un’altra persona in questa casa.»

Lei sentì di nuovo le lacrime agli occhi. «Per un po’ resterò, allora», disse rigidamente, cercando di avere una voce ferma.

«Non ricomincerai a piangere, eh?» domandò lui.

«Be’, non adesso.»

Un gruppo di cittadini vestiti di nero lasciò la strada affollata e aprì bruscamente la porta. «Dov’è l’oste di questa taverna?» domandò un giovane. «Siamo a lutto, e abbiamo bisogno di bevande corroboranti.»

Mentre suo padre si alzava, Lydea arrotolò le scarpe nel grembiule. Tornò dietro il banco di mescita per nasconderle di nuovo. Inginocchiata tra la roba da lavare guardò i fuochi azzurri balzare da una gemma all’altra e pensò, stupita: Dov’è la giovane donna che danzò con queste scarpe una sera, oltre il golfo della memoria e della morte? I suoi capelli erano stati acconciati in un’opulenta corona ramata, su cui brillavano spille di zaffiri. Indossava un abito di seta celeste, intonato ai suoi occhi, con la gonna orlata di merletti blu e piccole gemme. Anche il principe che danzava con lei aveva occhi blu, e nonostante ogni distrazione quegli occhi tornavano sempre sul volto di lei. Il sorriso dell’uno si rifletteva in quello dell’altra. Nessuno le aveva mai sorriso così, con gli occhi e con la mente. I cortigiani piegavano gli angoli delle labbra in uno stentato sorriso. I loro occhi vedevano la figlia di un taverniere. O peggio, calcolavano con metodo, come se facessero la lista della spesa, quali particolari di lei avevano attratto Royce. Soltanto lui l’aveva guardata oltre l’aspetto esterno, nella mente e nel cuore. Lui e Kyel.

Lydea ripensò alla sera in cui aveva visto per l’ultima volta il bambino, sul grande letto. Risentì il contatto morbido della guancia di Kyel sotto le sue dita, e si portò una mano alla bocca. «Oh, come vorrei…» mormorò, senza neppure sapere cosa. «Oh, come vorrei…»

Ma Kyel era svanito, come lo era quell’attraente giovane donna con le scarpe costellate di zaffiri che aveva danzato con un principe. Lei era morta come Royce, e Lydea lo sapeva. Questo era ciò che avevano pensato anche i cortigiani, dopo averla vista scacciata nelle strade di Ombria in piena notte. Assassinata, o chiusa nel retro di una delle taverne del porto dove attraccavano le navi della Perla Nera. In ogni caso, scomparsa definitivamente dal loro mondo.

Loro non mi riconoscerebbero neppure, se mi vedessero ora, pensò senza emozione. Nemmeno le cortigiane che spettegolavano su di me. Fuori dalle mura del palazzo, io non esisto.

«Lydea», la chiamò suo padre, con voce meno aspra del solito. Lei si accorse che il locale tornava a riempirsi; la cerimonia funebre era finita. Spinse le scarpe sotto la stoffa unta. E d’un tratto restò paralizzata, mentre la sua immaginazione vedeva in quei grembiuli spiegazzati e nelle tovaglie sporche qualcosa che non aveva ancora il coraggio di mettere in parole.