Questo era ciò che si stava dicendo. Ma in realtà Ducon Greve era una scusa, perché il suo vero obiettivo era Domina Pearl, e così procedette come se ogni passo sbagliato rischiasse di portarla sotto gli occhi della Perla Nera.
Non dorme mai, la vecchia tarantola? si domandò Mag. Oppure era troppo rinsecchita per aver bisogno di sognare? Chi poteva essere sveglio a quell’ora? Guardie, paggi, alcuni cuochi già impegnati a preparare il banchetto dell’incoronazione per l’indomani, e forse qualche carpentiere incaricato di sistemare la sala da ballo, anche se Mag dubitava che i cortigiani avessero voglia di divertirsi in occasione dell’ascesa al potere della Perla Nera.
La sua candela era diventata un mozzicone. Mag scivolò fuori dalla carrozza e andò a cercare le bottiglie: le grandi rastrelliere dove invecchiavano i vini che un principe pretendeva per le sue cene, e che dovevano essere raggiungibili in fretta dai camerieri di servizio nel salone.
Quando ebbe trovato la cantina dei vini, infatti, vide subito la stretta scala che saliva direttamente nelle cucine. Si avviò su per gli scalini, con le orecchie tese, e quando fu in cima udì delle voci che si avvicinavano. Soffiò sulla candela e poi fu svelta a rannicchiarsi nell’angolo dietro la porta, proprio mentre il battente si apriva.
A entrare fu una donna grassoccia vestita di nero, al cui fianco tintinnavano dozzine di chiavi infilate su un grosso anello. Borbottando tra sé l’inserviente scese, accompagnata dall’ondeggiante luce di una lampada e lasciando la porta socchiusa. Mag ne approfittò per uscire e si trovò tra alcuni lunghi scaffali colmi di confetture e dolciumi, d’aspetto così appetitoso che si sentì invogliata ad assaggiarli. Presso il largo camino in cui rosseggiavano le braci, giaceva un pargoletto, che la guardò sbadigliando e subito richiuse gli occhi. Lei uscì in corridoio, andò ad aprire una porta, e la sua intrusione disturbò un uomo vestito di nero, in piedi dietro un bancone coperto da pezzi di formaggio e tagli di carne, che si stava pulendo gli occhiali.
L’uomo si rimise le lenti sul naso, ma lei non gli diede un’altra possibilità di vederla. Quando lui uscì dalla stanza, qualche momento dopo, lei era sotto un tavolo, l’ultimo posto dove l’altro si sarebbe aspettato di trovarla. Mentre l’uomo andava a guardare nella pasticceria, lei si allontanò nel corridoio.
La cucina, come lo scantinato, era un dedalo di stanze, ma lei ne esplorò in fretta alcune finché giunse in un vasto salone dove vari servi, assonnati e sbadiglianti, stavano disponendo sui tavoli delle tovaglie larghe come vele. Lei si tenne nell’ombra e camminò in fretta e con aria indaffarata verso l’uscita, sul lato opposto. Gli unici servi che si voltarono a guardarla lo fecero mentre la porta già si chiudeva alle sue spalle.
Il palazzo, a quanto sembrava, era attivo anche di notte come i bassifondi della città, e forse altrettanto pericoloso. Le guardie armate che stazionavano fuori dalla porta del salone la guardarono con occhi vuoti e inespressivi, come se non la considerassero di rango abbastanza alto da appartenere alla razza umana. Lei sentì i loro sguardi sulla schiena per tutta la lunghezza dell’interminabile corridoio. Quelli erano alcuni dei molti occhi della Perla Nera, comprese all’improvviso Mag, e scomparve giù per una scalinata marmorea, ansiosa d’allontanarsi da loro.
Quando fu in fondo alla scala vide un uomo uscire dal muro, attraverso una porticina abilmente mimetizzata.
Subito si appiattì contro la parete delle scale, e diventò un’ombra aggrappata alla vibrante ragnatela d’ombre giusto oltre il velo lucente delle candele accese sui candelabri a muro, presso l’angolo. L’uomo non notò gli occhi di lei che lo sbirciavano da dietro le fiammelle. Gettò un’occhiata furtiva su e giù per il corridoio. Le pareti e le porte erano in lucida quercia, sobriamente ornate. I candelabri, pochi e alquanto distanziati, erano altrettanto semplici. Si trattava dei quartieri dei servi, forse, silenziosi e poco illuminati; un posto sicuro.
Mag pensò incuriosita al motivo per cui qualcuno poteva uscire da un passaggio segreto nel mezzo della notte. Che intenzioni aveva?
Un ladro, o un amante reduce da una furtiva visita in qualche camera da letto, queste sembravano le uniche ipotesi. L’uomo era vestito di nero, come tutti quanti in quei giorni; nulla indicava quale fosse il suo rango. Aveva in mano un pacco di fogli, il che sembrava poco appropriato sia per un ladro che per un amante. Il primo foglio, coperto da un caos di spessi segni neri, sembrava il disegno di un bambino. Nell’altra mano teneva una candela, che sollevò verso la bocca per soffiarci sopra. Fu solo in quel momento che Mag poté vederlo in faccia, e restò sorpresa nel notare quanto fosse giovane nonostante i capelli bianchi. Gli occhi chiari e il gioco di ombre creato dalla candela in movimento davanti al viso gli davano un aspetto enigmatico. Mentre rimetteva la candela spenta in un candelabro — forse lo stesso, notò lei, da cui l’aveva prelevata — le ombre sul suo volto cambiarono e ciò le permise di identificarlo. Era il giovane che lei aveva spiato alla trattoria, mentre il carboncino stretto da quelle abili dita cercava di ricostruire i suoi lineamenti, ben poco visibili sotto la veletta nera.
Ducon Greve.
Mag lo seguì a distanza di sicurezza lungo alcuni corridoi in penombra, silenziosi e privi di sorveglianza. Accanto a una grande urna di marmo, sistemata in una stretta anticamera per nessuna apparente ragione, salvo che nessuno la volesse altrove, lui scomparve di nuovo. Lei vide apparire il rettangolo scuro di una piccola porta dietro l’urna, ma quando la raggiunse si era già richiusa, e non riuscì a capire come si facesse ad aprirla. Toccare tutti gli angoli e le sporgenze dell’urna non produsse nessun risultato. Poi sentì un mormorio di voci dall’altra parte del muro e vi posò contro un orecchio. Da qualche parte, oltre quel passaggio segreto, la voce di una donna rìse. Mag fece una smorfia. Ducon avrebbe potuto restare lì dentro fino all’alba.
Tornò indietro sui suoi passi fino allo scalone di marmo e per un poco cercò di muovere i candelabri o di spostare qualcosa nei pannelli di quercia, ma tutto ciò che ottenne fu di identificare la sottile fessura della porta nascosta dalla quale il giovane era uscito. Era così intenta a ciò che faceva che non sentì l’uomo sullo scalone finché lui non le rivolse la parola.
«Tu, laggiù, vieni con me.»
Per un attimo lei restò paralizzata. Poi si costrinse a muoversi e rivolse all’individuo un rigido inchino. Solo quando rialzò la testa fu in grado di vedere oltre il velo che l’improvviso spavento le aveva calato sugli occhi. Ma non si trattava di una delle guardie di Domina Pearl insospettita dal suo comportamento. Era un individuo grassoccio che sembrava essersi vestito troppo in fretta, con una borsa nera in una mano e un vassoio carico nell’altra. Mentre lei lo guardava, l’uomo fece un gesto impaziente col vassoio, un liquido traboccò da un bicchiere e lui imprecò.
«Aiutami. Prendi questo e vieni con me.»
Lei annuì senza parlare e si affrettò ad alleggerirlo del vassoio. Poi lo seguì al piano di sopra, in un corridoio ben illuminato e sorvegliato da molte guardie. Muri e soffitti erano ornati di stucchi assai elaborati, color crema e porpora, che rappresentavano grandi uccelli in volo e rose i cui petali sembravano aprirsi al loro passaggio. Anche le massicce porte di legno scuro lucidissimo erano scolpite a motivi floreali. Da dietro una di esse provenivano dei singhiozzi lenti e disperati.
L’uomo con la borsa nera si fermò di fronte a essa e bussò. I battenti si aprirono su una scena di caos domestico: due serve stavano cercando di togliere le lenzuola di seta da un enorme letto sopra il quale un bambinetto, dal pigiama sporco di quella che sembrava zuppa, piangeva inconsolabilmente. La serva che era venuta ad aprire, in camicia da notte, appariva preoccupata.