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«Io so soltanto ciò che ho giurato.» Si alzò e li spinse da parte, per raccogliere i disegni. Nessuno lo fermò. Era mezza testa più alto del più alto di loro, e in possesso di tutto ciò che occorreva per aggirarsi da solo nei pericolosi bassifondi, e questo li rese cauti. Recuperando un foglio dal vaso di una palma, aggiunse: «Su una cosa avete ragione: io sono un bastardo senza nome e senza poteri. Perché venite a cercare me?»

Gli altri lo guardarono in silenzio mentre raccoglieva l’ultimo disegno e si rialzava. Sozon rispose, secco: «Perché nessuno vi conosce. Nessuno sa cosa volete. Né cosa fareste, se decideste di correre un rischio».

«Ombria è un albero che dà frutti d’oro, e questo albero è sorvegliato da un drago. Chi ucciderà il drago, avrà l’oro. Non c’è bisogno di avere un nome per riuscirci. Bastano il coraggio, l’intelligenza e la forza.» Mormorò Kestevan.

«Ed è per questo che io dipingo. Conosco bene il drago. Voi fate quello che dovete. Ma ricordate che la Casa di Greve è ancora più viva che mai, e che io le ho giurato fedeltà. Se colpirete Kyel, io faro quello che dovrò fare.» Detto questo uscì, lasciandoli ad arrovellarsi su qualunque ambiguità avessero trovato in lui.

Mentre si lasciava la serra alle spalle si disse che comunque era ancora vivo. Ma non poté evitare di domandarsi per quanto tempo ancora. Era scosso, irritato, spaventato, e non badava a dove metteva i piedi. Svoltando verso le scale per salire nel suo alloggio urtò un cortigiano che stava scendendo, e i disegni di Kyel si sparsero al suolo un’altra volta.

Il Nobile Camas Erl, probabilmente diretto in biblioteca per trovare un po’ di pace e tranquillità, mormorò una parola di scusa e si chinò a raccoglierli. Girò uno dei fogli e restò a guardarlo, immobile. Non disse parola. Ducon li ordinò uno accanto all’altro sul pavimento e rimase lì in ginocchio a osservarli, accanto al tutore.

Ogni pagina conteneva la raffigurazione di qualcosa accaduto negli ultimi giorni. Una piccola casa bianca senza finestre, con un quadrato nero per porta. Una strana creatura senza arti simile a un bozzolo, con occhi umani chiusi. Dei dischi neri sparsi qua e là: perle, oppure occhi spalancati. Il carboncino era stato premuto forte sulla carta per ottenere quel nero. Una piccola rigida figura incoronata, con grandi occhi, ma priva di bocca. Altre figure, una delle quali con capelli lunghi fino al bordo della gonna: Lydea. Un’altra figura che aveva in mano un quadrato e uno stecco: carta e carboncino. Sulle loro teste aleggiavano dischi neri. Nell’ultimo disegno il disco nero riempiva il foglio, qua e là strappato dalla pressione del carboncino. In un angolo, fuori dal circolo, galleggiava un’altra figura, un nanerottolo con la corona in testa, dal viso tondo annerito e simile a un’altra perla nera.

Ducon udì un grugnito. Non si rese conto di esser stato lui a emetterlo finché sentì le dita di Camas su un braccio. Il tutore stava riunendo in fretta i disegni con l’altra mano.

«Non qui», disse soltanto. «In biblioteca. Là non c’è mai nessuno.»

Ducon si alzò e lo seguì senza dire una parola. L’uomo aveva detto il vero: la biblioteca, con i suoi eleganti scaffali in legno di rosa e vetro, era vuota. Il libro aperto su un tavolo e i fogli di carta appartenevano a Camas; il giovane riconobbe la sua indecifrabile calligrafia. Fu su quel tavolo che il tutore depose i disegni. Ducon strinse con forza le mani sullo schienale di una sedia.

«Se io la combattessi mi farei ammazzare», disse. «E Kyel resterebbe tra le sue grinfie. Se cospirassi ai suoi danni, metterei in pericolo la vita di Kyel. È appena un bambino, troppo vulnerabile. Loro troverebbero il modo di liberarsi di lui…»

«Loro chi?» Gli occhi gialli del tutore, a un palmo dai suoi, erano stupiti. «Ducon… loro chi?»

«Voi li avete visti», rispose lui a voce molto bassa. «Un gruppo di cortigiani.» Si chinò a sfiorare con un dito la figuretta del principe privo della facoltà di parola. Gli tremava la mano. «Io credevo che il solo pericolo venisse da lei.»

«Chi sono questi cortigiani? Ducon, chi?»

«Devo pensare a cosa posso fare.»

«Ma…»

«Devo pensare», insisté lui. Camas lo lasciò andare, e abbassò lo sguardo sui disegni. Aveva ancora gli occhi spalancati, come quelli di un gufo; sembrava ascoltare, dietro quei fogli muti, la voce di Kyel.

«Hai visto il principe, questa mattina?» domandò Camas. «È stato allora che ti ha dato questi fogli?»

«No. Abbiamo un posto segreto; li ho trovati là. Almeno, io credo che sia segreto. Ma potrebbe essere un’illusione.»

«Vorrei che ti spiegassi meglio», lo pregò Camas. «Chi minaccia Kyel? Chi ti ha avvicinato?»

«Se io non agirò, non verrà fatto del male a Kyel. Se non parlerò, non tradirò nessuno.» Il giovane cominciò a riunire i fogli. Camas lo guardò, accigliato.

«E allora cosa farai?»

«Disegnerò.»

Lasciò il tutore in biblioteca e tornò nel suo alloggio. Il disegno che fece ritraeva le loro facce una accanto all’altra, la sua e quella del principe appena incoronato, come una promessa. Non aggiunse allusioni alla Perla Nera, per il caso che fosse lei a trovare il foglio, e lo lasciò dietro lo specchio per Kyel. Poi uscì dal palazzo e andò a zonzo nelle strade di Ombria, dove disegnò ombre per cercare la luce dentro di esse, fece schizzi di spessi portoni sbarrati mentre cercava nel loro legno corroso ciò che nascondevano, dipinse ad acquerello alte mura senza finestre come se, smontandole pietra per pietra sulla carta, potesse abbatterle e vedere finalmente la vita segreta che c’era dietro.

Rientrò a ora tarda, scarmigliato e anche un po’ ubriaco, con le mani sporche di carboncino e di pastelli. Scese negli alloggi della servitù, dove c’erano poche guardie, e lì aprì la porta di un passaggio segreto; poi salì fino al cunicolo dietro lo specchio per vedere se Kyel avesse trovato il suo disegno.

Il foglio non c’era più. Ma steso per terra c’era il messaggio che Domina Pearl aveva lasciato per lui: il cadavere di un uomo con la faccia coperta da una fronda di palma. Col fiato mozzo e la gola secca come se avesse ingoiato il carboncino, Ducon si chinò a scostare la fronda di palma.

Gli occhi del Nobile Hilil Gamelyn lo fissarono, pieni di rabbia nella morte come lo erano stati in vita. Aveva le labbra nere. Ducon si raddrizzò, vacillando; fece un passo indietro e deglutì il vino acido che una contrazione gli aveva fatto risalire dallo stomaco. I disegni gli scivolarono via da sotto il braccio e si sparsero sul cadavere come foglie: folli immagini di Ombria, angoli silenziosi e oscuri, sbarrati, nascosti alla vista.

Dopo un poco si chinò a raccoglierli, consapevole di ciò che doveva fare prima che Kyel aprisse di nuovo lo specchio. Se li infilò nella cintura, sollevò Gamelyn per le ascelle e lo trascinò via passo dopo passo, per un tempo che gli parve interminabile, finché raggiunse l’uscita segreta nella serra. Lì lasciò il morto, dietro le felci giganti, dove i giardinieri lo avrebbero subito trovato. Sapeva che i cospiratori si sarebbero fatti molte domande, e che probabilmente avrebbero finito per attribuire la responsabilità dell’atto, se non la sua stessa esecuzione, al bastardo che ormai sospettavano di essere un traditore.

9

L’apprendista della maga

Se Faey si era accorta che la sua figlia di cera quella notte non aveva fatto ritorno a casa, e che il giorno seguente mascherava sbadigli con l’affettazione di una cortigiana, non fece commenti. Un paio di volte Mag sentì il suo sguardo su di sé, opaco e inespressivo come quello di una vecchia civetta. Ma dovunque Faey supponesse che Mag aveva trascorso la notte, l’avrebbe immaginata più facilmente tra le pallide braccia del figlio del birraio, piuttosto che sotto il letto del principe di Ombria. Così almeno pensò Mag, e nella sicurezza della città sotterranea lasciò che trascorressero alcuni giorni, durante i quali rifletté su ciò che aveva visto nel palazzo.