La zingara che stava frugando nel cerchio di fuoco in cerca di pezzetti di legno non bruciato scrollò le spalle; il largo colletto della lucida blusa di seta le scivolò precariamente su un braccio.
«Un nobile o una dama con una manticora sul suo stemma. Il biglietto non era firmato. Il servo tornerà domani a prendere la pozione, e col resto dell’oro. Raccogli tutta questa roba, mia bambolina di cera, e mettila nel calderone grande.»
Mentre raccoglieva la cenere dal suolo con una paletta Mag domandò, incuriosita: «Perché te ne serve tanta, per fare un oggetto così piccolo?» Non appena ebbe pronunciato quelle parole avrebbe voluto acchiapparle nell’aria come farfalle e tornare a ficcarsele in bocca. Faey le diede uno sguardo simile a quello del rospo, freddo e scrutatore.
«Stiamo pensando, bambolina?»
«È una gran quantità di cenere», si difese Mag, con aria melensa. «Mi è venuto da farmi delle domande.»
«E dove ti portano queste domande?»
«Al carboncino da disegno.»
«E come fai a sapere che Ducon Greve disegna?»
«L’ho visto. Tutti possono vederlo. Va in giro per Ombria facendo schizzi o acquerelli di tutto ciò che gli colpisce l’occhio. Stavo solo cercando di mettere insieme il rospo, la cenere e Ducon.»
Faey mandò dal naso quello che sembrava il grugnito di un cavallo, e attraversò la stanza. «Suppongo di averti incoraggiato io a imparare», ammise. «Pensare può diventare un’abitudine. Ma bada… è un’abitudine pericolosa, e se mi desse dei fastidi questo non mi piacerebbe.»
«Sì, Faey. Non piacerebbe neppure a me», mormorò Mag, facendo scivolare il calderone verso il camino. «Vuoi che lo metta sul fuoco?»
«Sì.» Faey aprì la scatola di cedro e accarezzò dolcemente il rospo. Il batrace reagì eruttando una parola simile a una nota di organo e le salì sul palmo di una mano. «Tu sei il mio bel piccolino, vero?» tubò lei. «Avrai tante buone mosche e teneri ragnetti da mangiare, quando avremo finito.» Si volse a Mag. («Questo sarà un incantesimo uguale all’ultimo. Un distillato. Un concentrato. Il carboncino deve risultare abbastanza morbido perché un artista possa usarlo, e senza che sospetti la presenza del veleno.» Si chinò un momento a esaminare la cenere, poi accese il fuoco sotto il calderone schioccando le dita. Sputò nel grosso contenitore, e intorno al mucchietto di cenere si formò una pozza di liquido. «Ora dobbiamo dare all’artista un potente incentivo per usare questo particolare carboncino… Portami una dozzina di quei disegni appesi al muro, al piano di sotto, o dei quadri a olio, se i disegni non sono abbastanza buoni. Soltanto il meglio, mia bambola di cera. Aggiungeremo al carboncino un po’ di magia, e quel signore disegnerà fino alla morte.»
Mag si affrettò ad aggirarsi nei vari corridoi della casa, cercando di scegliere con occhio d’artista; sapeva che Faey l’avrebbe rimandata indietro se le avesse portato delle opere mediocri che meritavano di essere bruciate. Non poteva immaginare ciò che Faey avrebbe fatto mentre lei non c’era. Nulla di più pericoloso, si augurò, che mescolare cenere e acqua. Ma quando tornò di sopra il rospo stava sul davanzale della finestra, e srotolava la lingua verso uno sciame d’insetti racchiusi in una luminescenza verde. Faey era immersa nel suo incantesimo così profondamente che il suo viso di zìngara stava perdendo definizione; aveva un occhio più largo dell’altro, e il naso si era girato di traverso.
Nonostante questo ci vedeva fin troppo bene, anche dentro la testa della sua assistente.
«Sì», disse in tono sognante, come se Mag gliel’avesse domandato. «Il veleno è nella cenere. Leva i quadri dalle cornici e strappali. Tagliali, se sono troppo duri. Metti i pezzi nel calderone. Si scioglieranno presto, con quello che c’è dentro. Ma lasceranno le loro immagini nella cenere…»
«Cos’altro c’è, dentro?» la interrogò Mag, a dispetto di ogni prudenza. Faey, che aveva cominciato a parlare al calderone, non rispose. Lei tagliò a pezzi cartoni e tele, mescolando alberi e città, nuvole e bambini e cavalieri morenti in quello stufato. Quali effetti avrebbero creato uscendo dal carboncino sul foglio di Ducon, lei non riusciva a immaginarlo. Quando ebbe finito, Faey le diede il mestolo.
«Rigiralo con cautela, mia bambola di cera. Se ti schizza una goccia addosso, ti ustionerà.»
Mag mescolò con cautela. L’impasto continuò a cambiare colore ogni pochi momenti, finché divenne così scuro che il calderone sembrò pieno di notte. Faey lo guardava senza batter ciglio, con occhi vacui e socchiusi, mormorando parole arcane. La sua voce si fece sempre più bassa, e così anche la sostanza che fumava nel contenitore. Infine sussurrò l’ordine conclusivo. Gli ultimi rimasugli di pasta si coagularono e s’indurirono. Sul fondo del calderone prese forma un carboncino da disegno, tondo e liscio.
Faey mandò un sospiro; i suoi occhi si aprirono. Raccolse il carboncino con un paio di pinze e lo esaminò. «Bene. Ora possiamo andare a dormire.» Lo sguardo di Mag seguì il piccolo oggetto mentre l’altra lo deponeva in un anonimo astuccio di legno. «Non toccarlo», fu avvertita. «Avvelenerebbe anche te, come Ducon Greve.»
«Sì, Faey.»
La maga si spazzolò via la cenere dalle mani e si stiracchiò, rimettendosi a posto qualche osso con piccoli rumori secchi. Poi provvide a raddrizzarsi anche il viso e sbadigliò.
«Fai pulizia qui dentro, mia bambola di cera, e metti via il rospo.» S’infilò l’astuccio in una tasca della gonna. «Ho un altro astuccio in camera mia, proprio quello che ci vuole. Dorato, con intarsi in avorio. Vale la pena di darlo via, vista la somma che mi è stata pagata per avvelenare il bastardo.» Fece una pausa, sbatté le palpebre, poi si toccò gli occhi con le dita e aggiunse, con un rammarico del tutto insolito: «Be’, prima o poi sarebbe stata la Perla Nera a liberarsi di lui. Questo non fa che anticipare la cosa».
Quella notte Mag rimase sveglia a lungo nel suo letto, in attesa di sentire il russare di Faey. Ma dalla camera della maga non giunsero rumori. Finalmente, quando la ronda cittadina passò nelle strade annunciando la mezzanotte, Mag udì un delicato borbottio echeggiare nella vasta dimora. Scivolò giù dal letto e s’incamminò verso la camera di Faey, evitando le assicelle che scricchiolavano. La porta era socchiusa. La maga si era addormentata con la candela accesa. Sopra la faccia aveva un libro aperto, La guida illustrata del giardiniere. Dire che la stanza era in disordine sarebbe stato un eufemismo. Vasta come un salone, conteneva un formidabile caos di oggetti, buona parte dei quali visibili solo per metà: mobili degli stili più diversi, grandi guardaroba, tavoli massicci, altri letti. Abiti e biancheria giacevano dappertutto; scarpe appartenenti a secoli diversi, molte delle quali spaiate o addirittura a pezzi erano sparse sul pavimento. Pelli di animali di grossa taglia, complete della testa, pendevano capovolte dagli sportelli dei guardaroba e dagli specchi. I loro occhi di vetro, lucenti come candele, guardavano Mag. Perfino l’inferriata della finestra sembrava gremita di strane immagini, come se tutti i quadri dai quali Faey aveva prelevato quella camera da letto fossero lì, a tre dimensioni e nello stesso tempo.
Il carboncino nella sua scatola da regalo poteva essere dovunque: infilato in una scarpa, nella bocca di un orso, su un tavolo tra le immagini illusorie. Mag provò una disperata sensazione d’impotenza, anche se non c’era la stretta necessità di agire subito. Avrebbe potuto intercettare l’astuccio o il servo che lo portava via il mattino successivo, e sostituire il carboncino avvelenato con uno normale. Anche se lei non fosse riuscita a mettere le mani sull’astuccio, Ducon non sarebbe caduto morto subito dopo averlo ricevuto; sarebbe occorso del tempo. All’improvviso la zingara distesa sul letto borbottò nel sonno; il libro scivolò di lato. Mag si schiacciò contro il muro fuori dalla porta, senza respirare e immobile come una tappezzeria. La cosa più semplice sarebbe stata avvertire Ducon, o meglio ancora tornare a palazzo, trovare il suo alloggio e rubare il carboncino. In questo modo lui non l’avrebbe vista in faccia.