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La zingara aveva smesso di russare.

Mag chiuse gli occhi, trattenne il respiro e costrinse i suoi pensieri a riecheggiare le peonie e i pavoni che esibivano i loro colori sul muro dietro di lei. Una scarpa volò fuori dalla porta e colpì il muro opposto. La candela nella camera fu spenta.

Faey si girò dall’altra parte, borbottò qualcosa di poco cordiale sui gatti e riprese a russare. La sua bambola di cera scivolò via in silenzio come avrebbe fatto il gatto per evitare l’altra scarpa, e nel buio trovò la strada per tornarsene a letto.

10

La bottega della magia

Mentre lavorava per suo padre e aspettava con impazienza che i piedi guarissero, Lydea sentiva la preoccupazione per Kyel affilarsi sulla mola dei giorni che passavano. Il piccolo erede di Ombria era stato incoronato; da quel momento sarebbe potuto essere morto, per quanto si sapeva di lui. Lo stesso dubbio valeva anche per Mag, e desiderare ardentemente che si facesse viva non serviva a nulla.

Forse la misteriosa ragazza aveva pronunciato il nome della Perla Nera una volta di troppo e in presenza di orecchie sbagliate. E ciò che Lydea avrebbe voluto fare era di certo altrettanto pericoloso. In ogni modo, l’interesse di Mag era stato catturato dalle persone e dai fatti che governavano Ombria, al punto di portarla a interferire in modo sottile e contorto con chi giocava quella rischiosa partita, così Lydea supponeva di potersi servire di lei. Mag aveva già intralciato i piani di Domina Pearl una volta salvandole la vita. Ora, nel modo azzardato e incosciente dei giovani che ancora non capivano cosa potevano perdere, meditava d’intervenire nella sorte di Ducon Greve. Se Lydea fosse riuscita a persuaderla ad applicare il suo peculiare talento alle vicende di palazzo, forse avrebbe trovato il modo di farla tornare a contatto con Kyel senza attirare l’attenzione e i sospetti della reggente.

Ma dov’era finita Mag?

Pian piano le sue ferite guarirono, e lei poté muoversi senza più soffrire durante il lavoro nel salone di mescita, benché questo non la consolasse troppo. Le facce sudate, barbute e vocianti degli avventori erano un mare d’immagini confuse, che lei scrutava senza sapersi raccapezzare mentre portava qua e là vassoi di birra o di carne bollita, desiderando che l’aria s’illuminasse sopra quelle teste per dirle chi aveva ordinato questo e chi quello.

Suo padre non si lamentava troppo, anche se un paio di volte lei gli aveva letto negli occhi il desiderio di quegli zaffiri.

Un giorno si concentrò nello sforzo di ricordare il nome della maga con cui Mag viveva.

’Nel sottosuolo’, aveva detto la ragazza. Non si trattava di un posto facile da trovare. Quella sera sul tardi, mentre lavava pile di stoviglie, Lydea fece una pausa, accigliata, fissando le tavole umide della pavimentazione. Evidentemente la gente sapeva come trovarla, questa maga che poteva togliere la vita ai nemici di Domina Pearl con le sue fatture e tuttavia non la approvava. La sottile differenza tra le due cose sfuggiva a Lydea, anche se Mag non sembrava trovarci niente di strano. Comunque, se Mag continuava a non farsi vedere, lei avrebbe potuto andare a cercarla. La strada per il sottosuolo non doveva essere troppo difficile da scoprire. In ogni caso tutti finivano per andare laggiù, quando smettevano di respirare.

Sbatté le palpebre, ricacciando indietro le lacrime. Se il suo fato era quello, lei lo avrebbe accettato. Fato…

Faey, ecco il nome che Mag ha detto! le venne in mente.

«Io devo andare fuori per un po’», disse a suo padre, quando ebbe finito. Con una certa sorpresa si rese conto di non essere mai uscita in strada, dopo la notte in cui si era rifugiata lì per salvarsi la vita. Anche suo padre sembrava pensare qualcosa di simile, lo vide nello sguardo preoccupato dei suoi occhi.

Ma lui si limitò a dire, convinto che volesse andare a cercarsi un lavoro: «Forse è la cosa migliore». Si chinò a sollevare il coperchio di pietra della botola, dietro il bancone dove teneva i soldi. Le consegnò una moneta. «Nel caso che tu ne abbia bisogno», aggiunse burberamente, notando l’espressione di lei. «Se io assumessi qualcuno per fare quello che hai fatto tu, lo pagherei.»

«Se si presenterà qualcuno per farsi assumere, mostragli la porta», disse seccamente lei. «Sarò di ritorno prima che qui ci sia di nuovo da fare.»

«Sii prudente.»

Durante il giorno le viuzze di periferia erano sporche, rumorose e affollate come le ricordava. Dovette farsi da parte per lasciar passare vacche e pecore condotte al mercato o al macello, passò in mezzo a gruppetti di ragazzi di strada che giocavano accaniti e misteriosi giochi con un bastone o una palla di stracci. Resistette alla tentazione di afferrare una manciata di capelli unti o un orecchio mai lavato per domandare: Tu mi hai inseguito per picchiarmi e derubarmi, quella notte? Sei tu quello che ha inghiottito il mio anello? Alla luce del sole i loro sguardi la evitavano, la attraversavano. Lei esisteva in qualche altro mondo; se l’avevano inseguita, era successo solo in sogno. A ogni respiro sentiva odori diversi: formaggi di ogni forma sugli scaffali di una bottega, una zaffata d’orina, spazzatura ammucchiata tra l’erba di fronte a una locanda, profumo o sudore di esseri umani, la brezza marina che sapeva di alghe e salmastro.

Dopo un poco si accorse che inconsapevolmente stava cercando qualcosa. Non ricordava cosa, ma nel vederlo l’avrebbe riconosciuto. Era un ricordo d’infanzia: una vetrina polverosa, una porta che si apriva sull’interno vuoto di un edificio abbandonato da tanti anni che il pavimento stava marcendo. Un posto che conduceva nell’interno e poi giù in un’echeggiante penombra che puzzava d’acqua sporca. O se l’era sognato?

Quei ricordi del passato non portavano a niente, e li scacciò. Lei non aveva mai trovato una maga a quell’epoca, e non sembrava il modo migliore di trovarne una adesso. Guardò le insegne delle botteghe intorno a lei con sguardo più chiaro di quello della memoria. Un fornaio poteva sapere dove abitava una maga? Improbabile. Un farmacista? Possibile. Un venditore di penne d’oca e libri dalle pagine bianche su cui si poteva scrivere e far di conto? Su quella bottega lei non poteva riporre speranze; il fatto stesso che in quei quartieri poveri la maggior parte della gente non sapesse neanche scrivere il suo nome lasciava immaginare quanto fossero scarsi gli affari di quel bottegaio. La polvere incrostata sulla vetrina era così spessa che lei non riuscì a capire se dentro ci fosse qualcuno. I vetri che la componevano erano stati fusi mescolando rozzamente fondi di bicchiere e pezzi di bottiglie di ogni sfumatura di verde, azzurro e giallo. L’insegna sopra la porta, una penna d’oca da cui cadevano come in un racconto di fate tre gocce d’inchiostro rosso sangue, era così vecchia che il legno andava a pezzi.

Lei sbatté le palpebre e la ritrovò nei suoi ricordi.

Aveva già aperto quella porta ed era entrata, molto tempo addietro… ma l’interno non esisteva. Questo l’aveva spaventata, ed era subito corsa fuori alla luce del sole. Cos’era stato, esattamente, a farle paura? si domandò incuriosita. Spinse la porta scalcinata finché cedette e si aprì. Sentì alcune note metalliche suonare da qualche parte, benché sulla porta non ci fosse né un campanello né un cordone di collegamento. La chiuse e guardò con stupore il posto dove avrebbe dovuto esserci la parete posteriore della bottega.

Non c’era niente, laggiù. Le pareti laterali, il soffitto e il pavimento inquadravano un rettangolo di tenebra. Da quel buio emanava una corrente d’aria umida odorosa di humus. Si mosse con cautela da quella parte, augurandosi che il pavimento non cedesse, perché sembrava terminare sul bordo di un precipizio. Tuttavia sotto il suo peso era abbastanza solido. Si appoggiò al muro di destra e guardò nel baratro.