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Con sua grande sorpresa vide un fiume oscuro che scorreva molto più in basso, illuminato da radi lampioni su tutte e due le rive. Sia i lampioni che il corso d’acqua sembravano allontanarsi all’infinito in entrambe le direzioni. Poi la porta si aprì dietro di lei e le note metalliche si udirono ancora, un tintinnio sordo come un campanaccio da vacche proveniente da un luogo imprecisabile giù nel buio.

Quando si voltò, con un sussulto, si aspettava chiunque fuorché la corpulenta matrona avvolta in un voluminoso abito nero, con capelli annodati in un concio sopra la testa e chiusi in una fascia di merletto fissata con due spilloni. La sconosciuta unì le mani davanti all’addome e studiò Lydea in silenzio.

Lydea si schiarì la voce. «Sto cercando una maga di nome Faey. È questa la… Voi sapete per caso dove…»

L’altra annuì. «È una delle mie porte.» Aveva una voce rauca, ironica, che non si adattava affatto al suo volto grassoccio e all’abito da serva che indossava. Come intuendo la perplessità di Lydea si portò una mano al viso, tastandolo come avrebbe potuto fare un cieco. All’improvviso latrò una risata. «Ho copiato l’aspetto della mia governante. La poveretta non è precisamente viva. Tu sei…?»

«Lyd…» La sua voce non voleva saperne di uscire. Tossicchiò. «Lydea. Io sono… io stavo… io…»

«Vieni, accomodati», la invitò cortesemente la maga.

E all’improvviso furono in un piccolo salotto civettuolo — da qualche parte di quel posto oscuro, suppose Lydea — con le pareti di piante, fitte come una tappezzeria verde trapunta di fiori viola. Era arredato con poltroncine molto imbottite, che sembravano aver vagato qua e là fino a fermarsi a caso tra palme che allungavano attorno foglie acuminate come spade. La maga si scusò con un sorrisetto e restituì il suo corpo alla governante: nel punto in cui si trovava vorticò un caos di colori e d’immagini in continuo mutamento, che Lydea osservò a bocca aperta e con occhi sbigottiti. Dopo un poco i pezzi si assemblarono in una donna completa, che con mossette vezzose si riassettò i capelli come se fosse stata esposta al vento.

«Siediti, prego», la invitò, con la stessa interessante voce rauca, che peraltro non si adattava neppure a quel viso: pelle d’avorio incipriata di rosa sulle guance paffute, bocca rossa a forma di cuore, e rigonfi capelli biondo-platino con riflessi d’argento. Gli occhi di lei presero criticamente nota dell’abito di Lydea, macchiato di birra e dalle maniche ancora arrotolate dopo aver lavato i boccali, il berretto informe, gli zoccoli di legno; ma invece di metterla alla porta domandò: «Una faccenda d’amore, non è così?»

«Amore?»

«Vuoi un filtro? Per far innamorare un uomo?»

«Oh, no. Il mio uomo è morto.» Lei esitò. Faey la guardava con una espressione tra cinica e divertita.

«Sono venuta a cercare Mag», si decise a dire, infine. «Vorrei che mi facesse un favore. So che forse non dovrei chiedere una cosa del genere.»

Le sottili sopracciglia dipinte s’inarcarono con sincero stupore. «Vuoi l’aiuto della mia figlia di cera?»

«Io non sapevo… cioè, a me non è sembrata affatto di cera. Mi ha già aiutato una volta con i suoi strani poteri, così ho pensato a lei per quello che mi serve.»

«E come ti ha aiutato?» la interrogò la maga con voce morbida e suadente. Gli occhi verdi la guardavano come quelli di un felino eccitato dalla preda. Non c’era modo di evitare la risposta, comprese Lydea; nessuna scelta fuorché quella di dire tutto.

«Mag mi ha salvato la vita. Quando il principe di Ombria è morto, Domina Pearl mi ha buttata fuori dal palazzo in piena notte, senza che io avessi altra colpa fuorché quella di esser stata la sua concubina.»

Sia la voce che le sopracciglia della maga palpitarono a quelle parole. «La sua concubina… tu!»

«Be’, non dovete giudicarmi dal vestito che porto. Adesso lavoro.»

Faey si appoggiò allo schienale con un tonfo che lo fece cigolare, poi i suoi occhi cercarono di vedere in Lydea il genere d’incantesimo che aveva gettato sul principe. Lydea si sentì in dovere di aiutarla levandosi il berretto, e i capelli le caddero giù, ancora un po’ umidi del vapore della vasca d’acqua bollente dove aveva lavato le stoviglie. Ma la maga stava già annuendo tra sé. «Ricordo. La ragazza dai capelli rossi, la figlia del taverniere. Ho saputo, sì. Ma cosa pensi che Mag possa fare per te? Se stai cercando vendetta contro Domina Pearl, non solo finiresti male ma mi faresti anche perdere la mia assistente.»

«No. Non sono così stupida.»

«Quanto a questo, la gente che arriva fin qui non lo fa perché vive una vita intelligente. Tu che genere di stupida sei?»

«Suppongo che sia una questione d’amore. Io voglio un travestimento per poter tornare nel palazzo. Per il bene di Kyel. Non posso sopportare di saperlo solo, in balia della Perla Nera. Lo conosco da quand’era in fasce e posso dire d’averlo cresciuto io.»

Faey emise un grugnito. Allungò una mano a strappare un mazzo di foglie lanceolate dalla palma più vicina e le usò come ventaglio per rinfrescarsi. I suoi occhi si strinsero. «E cosa vorresti che facesse Mag?»

«Che spiasse nel palazzo, e trovasse un travestimento adatto a me. Io non prestavo attenzione a queste cose, quando abitavo là. Guardavo il personale di servizio con distrazione; non facevo caso al modo in cui quelle persone vivono e lavorano insieme. Indossavo le mie scarpe senza badare a chi le puliva, e le mie vesti di seta senza pensare a chi le lavava. Mi sono detta che forse Mag potrebbe… So che è pericoloso… forse non ho pensato…»

Faey stava pensando, invece. Un filo di fumo o di vapore le uscì da una narice. Lydea si sentì la gola secca. «E tu credi che lei farebbe questo per te?»

«Be’, lei sembra… lei ha un occhio su quello che succede nel palazzo. Mi ha detto che Domina Pearl non le piace.»

Il ventaglio nella mano di Faey si chiuse, con un fruscio di foglie. Lydea afferrò nervosamente i braccioli della poltroncina. La maga si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro, agitando le foglie come la coda di un gatto irritato. Lydea vide con stupore che sedie e divani si toglievano di mezzo al suo avvicinarsi. Gli occhi della maga erano diventati neri come carboni. «Sei certa che Mag farebbe questo per te?» domandò bruscamente.

«Io credo… credo di sì.» Lydea deglutì, cercando di avere una voce ferma. «Lei è così curiosa, e non ha paura di nulla. È venuta da me, alla taverna di mio padre, per domandarmi di Ducon Greve.»

«Cos’ha voluto sapere di lui?»

«A chi è fedele. Nel caso che voi…» Lydea esitò. «Se…»

Ma Faey spazzò via l’argomento Ducon con le foglie. «Ducon Greve ha già chi si occupa di lui», disse, con gelido disinteresse. Tra le sue sopracciglia c’era una piega dura. Il suo viso stava cambiando; l’elegante profilo del corpo si appesantiva, cedeva, le sopracciglia diventavano cespugliose. All’improvviso i capelli platinati persero la piega e ricaddero, lisci. Si scostò una ciocca e inchiodò su Lydea due pupille penetranti, arroventate.

«Quando è stata l’ultima volta che hai visto Mag?»

«Il giorno in cui hanno seppellito Royce», sussurrò lei.

«Da allora non più?»

«No.»

La maga sedette su una poltroncina e si toccò il viso, indurendo, aggiustando, rimodellando. Il cipiglio scomparve e fece ritorno, più leggero. «Io gliel’ho detto di stare alla larga dalla Perla Nera.»

Visto che era intrappolata lì e destinata a essere ridotta in cenere da quegli occhi, Lydea azzardò una domanda. «Chi è Domina Pearl? Chi è quella donna?»

La maga mordicchiò una foglia di palma tra i denti candidi e perfetti. Sembrava ascoltare qualcosa dentro di sé, o nel buio oltre l’accogliente illusione che le circondava. Dopo un poco Lydea osò fare un’altra domanda. «Voi sapete dov’è Mag?»