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Faey si tolse un pezzetto di roba verde dai denti. «Non ne ho idea.» Guardò la giovane donna con occhi simili a pietre fuse. «Naturalmente tu puoi aspettarla qui, con me. Vuoi una tazza di tè?»

11

Lo sconosciuto

La morte di Hilil Gamelyn, a così breve distanza da quella del principe di Ombria, lasciò i cortigiani come storditi. Il fatto che l’ex ministro e consigliere del defunto principe avesse improvvisamente esalato l’ultimo respiro tra le piante della serra, parve misterioso e oscuro, e assai pochi furono i commenti fatti a voce. Si disse che l’uomo doveva essersi sentito mancare il cuore, e che aveva barcollato nella serra in cerca d’aiuto. Nessuno osò esprimere in pubblico un’opinione sul perché le sue labbra e la lingua fossero nere, ma le ipotesi appena sussurrate sparsero un’atmosfera intimorita e spettrale nel palazzo.

Per un paio di giorni dopo il tragico evento, Ducon non riuscì a scacciare l’idea che la sua stessa vita avrebbe potuto concludersi in modo altrettanto inaspettato da un momento all’altro. La Perla Nera doveva aver saputo che tra le palme si erano riuniti dei cospiratori, e che tra costoro c’era anche lui. Tuttavia Ducon rifiutava di lasciare il palazzo per trasferirsi in città, dove sarebbe stato, paradossalmente, più al sicuro. L’occhio maligno della reggente si sarebbe volto su Kyel, se lui fosse fuggito dopo aver complottato ai suoi danni.

Domina Pearl si limitò a mandare la salma di Gamelyn ai suoi familiari, senza fare commenti in merito. La sua piccola figura eretta vestita di seta nera che si muoveva nelle sale del palazzo aveva un effetto ipnotico sui cortigiani, e le loro quiete conversazioni restavano confinate ad argomenti privi d’importanza. Quando ebbe occasione di parlare a Ducon, la donna non fece cenni a cospirazioni o a segreti nascondigli dietro gli specchi. Il giovane non poté far altro che prendere nota, con profondo disagio, che si era liberata di un uomo che li aveva minacciati entrambi e nello stesso tempo aveva indirizzato i sospetti proprio su di lui.

«Strano», mormorò Marin Sozon a Ducon, mentre la reggente stava presentando i suoi nuovi ministri a tutti i cortigiani riuniti nel salone. Metà dei prescelti erano pallidi e anziani individui che si tenevano in piedi a stento; gli altri sembravano gente venuta dai bassifondi del porto con addosso abiti prestati per l’occasione. «Voglio dire, strano com’è morto Halil.»

Pensando al posto in cui lo aveva trovato, accanto alla porta segreta dietro lo specchio, Ducon annuì. Poi ricordò dove aveva trascinato il cadavere. Guardò Sozon, in silenzio. Gli occhi azzurri dell’uomo non erano più iniettati di sangue; e si chiese quali pensieri celassero. «Può darsi che aspettasse qualcuno di voi, nella serra», gli rispose.

«Qualcuno aspettava, evidentemente», mormorò il Nobile Sozon, con una scrollata di spalle. Notò che Domina Pearl guardava con aria inespressiva nella loro direzione e si scostò di un passo da Ducon. Dopo qualche momento, aggiunse: «Giorni fa, ero convinto che si sbagliasse».

«Su cosa?»

L’altro gli rivolse un sorrisetto equivoco. «Su di voi.»

«E infatti sbagliava», replicò Ducon, rigido. Sozon non rispose. Lui si voltò a scrutare Kyel, seduto accanto alla reggente. Il bambino aveva cerchi scuri intorno agli occhi, ma appariva più cauto che intimorito mentre i nuovi ministri venivano a inchinarsi davanti a lui. A un tratto gli si mozzò il fiato per lo stupore, nel vedere le dimensioni del coltellaccio che uno di loro aveva infilato nella cintura. L’individuo lo tirò fuori e disse qualcosa sulla sua capacità di sbudellare gli squali. La reggente sibilò qualche parola sottovoce; il suo consigliere si affrettò a rinfoderare l’arma, e Kyel ricominciò a respirare. Quando Ducon riportò la sua attenzione su Sozon, tutto ciò che vide fu la manticora ricamata sulla schiena della sua giubba. Quel volto selvaggio, famelico, aveva una certa somiglianza col consigliere armato che si stava accomiatando dal principe con un goffo inchino.

L’anziano cospiratore non disse altro a Ducon sulla morte di Gamelyn. Domina Pearl non trovò necessario rivolgergli la parola neppure dopo il termine della cerimonia, ma lui udì le loro accuse non dette, e continuò a rimuginarle anche durante il pranzo. La tensione, insopportabile come una tempesta che non voleva scoppiare, lo costrinse infine a uscire dal palazzo, nelle rumorose e imprevedibili strade dei sobborghi.

Con i fogli sotto un braccio, e in tasca una scatola di carboncini e pastelli, andò alla deriva come una barca senza guida nei melmosi bassifondi di Ombria. Lasciandosi alle spalle una scia di disegni accartocciati e mozziconi di carboncini vagò attraverso mutevoli luci e ombre, dentro una taverna e fuori da un’altra, realizzando schizzi di tutto ciò che colpiva la sua fantasia, finché il buio scese nelle strade e lui finì per trovarsi seduto su un muretto, alla luce di un lampione, dove continuò a buttare giù caricature di tutte le persone che passavano da lì mentre tornavano alle loro case per la notte.

Poi s’incamminò di nuovo senza una meta, lasciando che le gambe lo portassero qua e là nelle viuzze piene di pozzanghere, dove la luna galleggiava finché i suoi piedi la mandavano in pezzi. Si stava domandando quante lune ancora avrebbe dovuto calpestare, quando qualcuno sbucò da un androne buio alle sue spalle. Una mano lo afferrò per il colletto della camicia, e lo strattone lo fece vacillare. Ducon sentì nella schiena il morso di un coltello.

«Sentiamo un po’, bel giovanotto. Quanto oro ti è rimasto nelle tasche?»

«Il mio oro si è trasformato in carbone», rispose lui. «Guarda tu stesso, se non ci credi.»

La mano lasciò la sua camicia, e gli tirò fuori di tasca la scatola. Dopo un momento il ladro imprecò e gettò la scatola sul selciato, e i carboncini e gli acquerelli volarono tutto attorno.

Nello stesso istante, il giovane reagì colpendo l’aggressore con un gomito e il tacco metallico di uno stivale. Sentì il coltello rimbalzare al suolo; l’uomo barcollò via con un gemito e scomparve in una traversa. Ducon, sempre con i fogli sotto un braccio, cominciò a raccogliere le sue cose. Nell’ombra sotto un carretto vide un pezzo di carboncino. Emanava una strana luminosità, circondato da una vaga aura di colori. Meglio così, ti ho trovato più facilmente, pensò lui, mettendo anche quello nella scatola di legno. Mentre si raddrizzava, il mondo gli girò attorno. Si appoggiò al muro per non cadere, e si chiese se avrebbe finito la nottata disteso nello scarico di una fogna, insieme al riflesso della luna. Ma subito dopo lo stordimento passò, e lui ricominciò a vagabondare.

Un po’ più tardi si ritrovò seduto a un tavolo consunto, lo sguardo abbassato sul volto emerso sul foglio sotto i rapidi tocchi del suo carboncino. Cancellò un’ombra da un occhio, schiarì una linea a lato della bocca, poi appoggiò il mento sul palmo di una mano e la contemplò ancora. Dopo un poco rialzò la testa e guardò le facce sporche e poco amichevoli dei clienti seduti nella taverna. Nessuno di loro aveva ispirato quel ritratto; erano tutti dei perfetti estranei. Esaminò di nuovo il foglio, grattandosi distrattamente un sopracciglio e lasciandosi strisce nere sulla fronte. Sapeva di aver già visto da qualche parte quei lineamenti impavidi, gli occhi curiosi, la bocca larga e rigida, i capelli chiari e le sopracciglia dritte che poche linee di carboncino erano bastate a raffigurare.

All’improvviso ebbe un sussulto; il gomito gli scivolò giù dal tavolo e per poco non si portò dietro il bicchiere del vino. Aveva ritratto se stesso. Guardò più da vicino per mettere meglio a fuoco il disegno. No, non era esattamente lui. Le lievi rughe intorno alla bocca e agli occhi suggerivano piuttosto un Ducon Greve del futuro, dopo un paio di decenni di governo di Domina Pearl. Non era un volto cupo, ma soltanto pensieroso. Dava l’impressione di restituire lo sguardo al se stesso più giovane, il quale sedeva lì, col carboncino in mano, e lo studiava. All’improvviso Ducon ebbe un breve attacco di vertigini. Chiuse gli occhi e si passò una mano sulla fronte, lasciandoci una ditata nera. Giusto allora qualcuno accostò rumorosamente una sedia al suo tavolo. Ci fu un odore di lavanda e di birra, un vortice di colori, e la persona che si era seduta alla sua destra allungò una mano e gli tolse il foglio dalle dita.