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«Non vi sentite bene, Nobile Ducon?» domandò la voce di una donna. Lui alzò lo sguardo e sbatté le palpebre. Era giovane, con la faccia butterata dal vaiolo e un sorriso dolce. Lui provò subito la tentazione di farle un ritratto. «Se state per mostrarci quello che avete mangiato a cena, non posate la bocca sul vostro disegno.»

«Come sai il mio nome?» domandò lui.

«Tutti vi conoscono.»

«Che ne pensi di questo disegno?»

«Sembra che vi siate fatto l’autoritratto.» La donna si grattò distrattamente un dente, studiando il disegno. Poi si corresse. «No, vi siete fatto troppo vecchio. Chi è questo, allora? Vostro padre?»

Lui vide il mondo girargli intorno; il sudore gli bruciò gli occhi. Si portò una mano al volto come per sentire se era ancora solido, ma quella conferma lo lasciò svuotato, come se di lui non restasse più nulla, neppure il nome. Le dita della donna gli si chiusero dolcemente intorno a un polso. La sentì dire qualche parola in tono invitante. Si alzò con lei e raccolse le sue cose. La donna gli restituì il disegno e lo prese a braccetto, sempre continuando a parlare. Ma quando Ducon giunse alla porta la donna non era più con lui. Il tempo e la memoria si erano confusi; ora stava uscendo da una taverna del tutto diversa.

Quella notte si svegliò in una stanza sconosciuta, o forse la notte successiva; non ne era sicuro. Un candeliere d’argento a tre braccia illuminava il volto della giovane donna che lo stava guardando. Indossava un largo abito di seta rosa, col bordo di pizzo. I suoi piedi nudi, appoggiati sul letto proprio accanto al viso di lui, erano sporchi di fango.

La ragazza sorrise. Aveva un volto magro e triangolare, da gatta. Sulla guancia sinistra, bianca come il latte, campeggiava una cicatrice a zig zag. Lui riconobbe quel sorriso, ma non il volto, né il posto in cui si trovava. Oltre le lunghe tende di velluto dietro di lei vide una striscia di buio profondo.

Con voce rauca domandò: «Come…?»

«Siete arrivato qui con i vostri piedi, e poi siete caduto sul letto, Nobile Ducon. Fortunatamente ho trovato nelle vostre tasche abbastanza denaro da mandare via il gentiluomo che occupava la stanza.»

«Tu conosci il mio nome», disse lui. Era quasi una domanda.

Lei fece un gesto verso una sedia, dove un mazzo di fogli disegnati giaceva sopra i suoi abiti. «È facile riconoscervi. Non state a domandarvi se voi conoscete me; la risposta è no.»

«Credo anch’io. Ti avrei già fatto il ritratto, se ti conoscessi.»

Il sorriso di lei cambiò per un momento, diventò sincero. Lui cercò di alzarsi a sedere. La figura in seta rosa e velluto color ciliegia roteò, il letto ondeggiò nell’aria. Lui ricadde all’indietro, con gli occhi chiusi. Sentì le dita di lei su una guancia.

«Siete freddo», disse la ragazza. «Freddo come un morto. Siete malato?»

«Non posso essere malato, se sono morto», mormorò lui in tono ragionevole.

Ma lei aveva perduto il suo sorriso. Nei suoi occhi c’era uno sguardo preoccupato. «Manderò a chiamare un medico, mio signore.»

«Non ne ho bisogno. Probabilmente sono ubriaco.»

«Allora vi farò un po’ di brodo, per riscaldarvi.»

«No», disse lui. La gola gli si era chiusa a quel pensiero. Allungò una mano alla cieca; trovò un polsino di pizzo, quindi il braccio di lei. «Solo, resta qui accanto a me. Ti prego. Ho abbastanza soldi in tasca per questo?»

Lei esitò, ancora cauta; poi Ducon sentì la tensione abbandonare il suo braccio. «Non con tutto quel carbone che avete sulla pelle», borbottò. Dopo un po’ di tempo lui sentì che la ragazza gli lavava il volto e le mani con acqua calda profumata, piacevole quanto il contatto di lei.

Lo sguardo della Perla Nera s’introdusse nei suoi sogni e lo costrinse a un brusco risveglio, quando non era ancora l’alba. La ragazza russava leggermente al suo fianco, avvolta nel suo abito di seta rosa. Ducon allungò una mano ad accarezzarle un ricciolo, ma lei non si mosse. Lui si tirò a sedere, con cautela, la stanza rimase immobile. I suoi pensieri andarono a Kyel. Il bambino non aveva idea di dove lui fosse finito e perché. Avrebbe incolpato Domina Pearl, sapendo che era lei a far sparire la gente, e lei sarebbe stata costretta a metterlo a tacere…

Si vestì più in fretta che poté, smarrendo l’equilibrio solo di tanto in tanto. Se non avesse perso altro tempo, poteva rientrare a palazzo e lasciare un disegno per Kyel prima che si svegliasse. Qualcosa a cui il bambino potesse dare un significato. Un Re degli Incapaci, magari, con la corona di traverso, che danzava tra le onde, mentre un uomo dai capelli chiari lo dipingeva. Vagò per qualche tempo nel buio dei corridoi di quella casa silenziosa, prima di trovare la porta di strada. Quando uscì, il sole si stava infilando in un banco di nubi all’estremità del mondo, e nell’aria stagnava un’umida nebbiolina argentea. Una nave appena salpata dal molo verso il mare aperto sembrava navigare su un fiume di luce.

Ducon si frugò in cerca di un carboncino. Il sottile oggetto sfuggì dalle sue dita tremanti; lui si chinò a raccoglierlo e cadde per qualche momento in un vortice oscuro, turbinoso. Dovette appoggiarsi a un muro per poter disegnare. L’albero della nave si piegava a strane angolature sul suo foglio. Quando ebbe finito, restò lì ancora un poco, sfregandosi gli occhi con le dita annerite, e cercò di ricordare dove aveva bisogno di andare con tanta urgenza e perché.

Infine il sole sbucò dalle nuvole, e lui s’incamminò in quella direzione, seguendo la luce.

Più tardi si svegliò col volto premuto contro un volto a carboncino. Intorno a lui ronzavano i rumori e le voci di una taverna. Alzò la guancia dal foglio e trovò un boccale di vino, all’apparenza ancora intoccato, accanto alla sua scatola da disegno. Mentre si guardava attorno con occhi storditi, scorse il sorprendente volto che lui aveva ritratto un giorno prima — o due, o cinque giorni? — che lo stava osservando, stavolta, però, era attaccato a un corpo.

Si alzò di scatto. Ma subito dovette tornare a sedersi per lasciare che la sua testa si sgombrasse dall’improvvisa tenebra. Quando riuscì a vederci di nuovo, l’uomo dai capelli bianchi si era voltato e stava uscendo dalla porta. Ducon raccolse in fretta il materiale da disegno, si ficcò in tasca i carboncini e le gomme da cancellare, e bevve un primo sorso di vino per schiarirsi la mente.

Fu come se avesse bevuto del fuoco. Non riusciva più a respirare; non poteva neppure mandare un gemito. Vacillò contro il muro, sbattendo le palpebre per schiarirsi gli occhi accecati dalle lacrime. Non appena il dolore gli diede una pausa s’incamminò ancora, irritato contro quello strano malessere, concentrandosi sulla preda: l’uomo che aveva il suo viso invecchiato.

All’esterno la luce lo abbagliò; riusciva a vedere a stento. L’uomo si era fermato davanti alla vetrina di una bottega, lì vicino, e stava osservando un paio di fioretti da scherma. Poi, bruscamente, si voltò dall’altra parte, ma non prima che Ducon potesse vedere il suo viso, dalle sopracciglia dritte e con occhi color nebbia. Il giovane ebbe un tuffo al cuore. Lui e quell’uomo erano della stessa altezza, uguali come due vetri della stessa finestra. Cercò di chiamarlo, ma il vino gli aveva bruciato la voce. Lo sconosciuto si allontanò rapidamente tra la gente che affollava la strada. Ducon, a passi più lenti e aiutandosi con l’appoggio dei muri e di pigre ruote di carro, gli tenne dietro senza perdere di vista quella testa dai capelli chiari e ben pettinati.