Non si era allontanata di molto quando alcune ombre cominciarono a inseguirla. Uno spintone la fece sbandare verso un andito illuminato, ma lei riuscì a proseguire; un altro la costrinse a vacillare in una traversa buia. Mani rozze le palpeggiarono i capelli, il petto, i piedi nudi. La donna si divincolò e fuggì verso una strada meglio illuminata. Qualcuno la afferrò per la lunga treccia; la fece cadere in ginocchio, le arrotolò la treccia intorno al collo. Lei chiamò aiuto, cercando vanamente di colpire gli aggressori. Il suo grido echeggiò tra le case con una nota che le parve derisoria; ma all’improvviso si trovò libera, senza nessuna ragione. Si rialzò e fuggì sino in fondo alla strada, e svoltando l’angolo investì un uomo corpulento. Fu come sbattere contro un muro. Una mano larga come un badile afferrò le sue e gliele imprigionò dietro la schiena. Una faccia barbuta le si accostò dietro un orecchio. D’un tratto qualcosa, forse un pipistrello, sbucò dal buio e l’uomo fece un passo indietro e cadde a sedere sull’acciottolato. Non si mosse più. Era ubriaco fradicio, suppose lei mentre riprendeva a correre, e freneticamente cercò di orizzontarsi tra quelle strade dove da bambina si era aggirata senza difficoltà. C’era gente, e delle voci mascoline la seguirono.
«Dove vai così di corsa, carina? Vieni con noi, che ti facciamo divertire. Ehi, perché tanta fretta? Guarda, guarda, tu hai qualcosa che brilla come stelle tra i capelli. Ehi, bellezza, facci vedere queste tue stelline, soltanto vedere, e ti lasceremo andare. Quello è un vicolo cieco; non c’è niente la, torna qui alla luce.»
«Fermatela… prendetela, ha rubato un tesoro e se l’è nascosto tra i capelli…»
Lei si strappò un anello dalla treccia, lo gettò dietro di sé. Metà dei suoi cenciosi inseguitori si fermarono a litigarselo. Gettò un secondo anello agli altri; un giovane accattone lo prese al volo e lo inghiottì, con un sogghigno. Lei ne lanciò un terzo e altri ancora, finché i capelli le ricaddero sciolti sulla veste lacera e sporca. Le risate e le mani avide si allontanarono per qualche momento, ma subito le furono di nuovo attorno. I cartelli indicatori puntavano in troppe direzioni. Una donna scagliò una bottiglia che s’infranse ai suoi piedi. Lei passò sopra quei vetri gridando per il dolore mentre vacillava, e le parve di camminare su schegge di fuoco. Qua e là vedeva insegne di taverne: La Vergine di Ferro, La Quercia che Cammina, La Luna e il Gufo. Dov’era quella di suo padre? Esisteva ancora? Come si chiamava? Una mano l’afferrò per un polso, lasciandola però subito, come se bruciasse. Girandosi, lei vide un volto femminile che non sembrava minacciarla; le apparve anzi assurdamente calmo nella luce polverosa di un lampione, come se quella ragazza apparsa accanto a lei fosse uno spettro. In quell’istante Lydea ricordò il nome: Rosa e Spina, in via del Pastore.
«Via del Pastore…» ansimò. «Da che parte?»
Il fantasma indicò una direzione e scomparve, come se non fosse mai stato lì. Un singhiozzo rauco, stupito, le sfuggì dalla gola. Dove sei andata? domandò in silenzio alle ombre della strada. Come hai fatto a sparire così?
Alcune voci le gridarono qualcosa. Ai suoi inseguitori si erano uniti anche dei cani, che abbaiavano selvaggiamente. Lei riprese la fuga. Fu raggiunta e fermata, palpeggiata e poi lasciata libera, per ragioni che non erano chiare, a meno che quegli individui fossero ciechi o ubriachi. Quando svoltò in via del Pastore vide l’insegna con la rosa dipinta, che oscillava sotto la luna.
Spalancò la porta ed entrò di corsa, andando a cadere in ginocchio di fronte a un uomo basso e calvo, corpulento, occupato a lavare in terra con uno straccio bagnato di birra. Lui la guardò; lei lo fissò in silenzio. Lui si voltò a sputare sullo straccio. «E così, sei qui.»
Lei si scostò dalla porta, in modo che lui potesse mettere il catenaccio. Le grida e i latrati lasciarono il posto a imprecazioni, risate, e guaiti di cani che venivano presi a calci. Lei andò ad appoggiarsi al bancone e chiuse gli occhi, ascoltando i fruscii bruschi, irritati, della scopa.
Alla fine disse: «Non hai nessuno che lavi in terra?»
«Ho me stesso.»
«Ricordo che non hai mai saputo farlo.»
«Non è un manico di scopa quello che hai maneggiato negli ultimi cinque anni.»
Lei riaprì gli occhi. Lui posò la scopa contro il bancone e incrociò le braccia, con un’espressione più chiusa della porta che aveva appena sbarrato. La tristezza bruciava come fuoco nella gola di Lydea. La giovane inghiottì la brace, perché sapeva che lui non avrebbe avuto pietà. «Hai qualcuno che ti pulisce i tavoli?»
«La mia mano destra.»
«E per lavare i bicchieri?»
«La strada è piena di taverne, di questi tempi», disse lui. E aggiunse: «Io faccio con quello che ho».
«Io lo farò gratis.»
«È così che l’hai fatto, in questi cinque anni?»
Lei storse la bocca. Guardò i bordi stracciati del suo vestito, i ginocchi escoriati, la paglia su cui posava i piedi.
«Hai ragione. Sono stata una stupida. Non voglio supplicarti… Solo, se vuoi buttarmi in strada, ti prego di non farlo prima di domattina. È pericoloso, là fuori.»
«Ho sentito le campane a lutto», disse lui. «Ma non immaginavo che saresti venuta qui.»
«Laggiù nessuno mi voleva, a parte il bambino.»
«Il bambino. Lo lasceranno vivere?»
Lei scosse il capo, aveva un groppo in gola. Le bruciavano gli occhi. «Non lo so», sussurrò. «È indifeso.»
Lui mosse un piede sulla paglia, fissandola. «Te l’avevo detto di non mescolarti con quella gente.»
«Lo so.»
«Anche tua madre ti pregò di non farlo.»
«Lo so.»
«E ora sei tornata.»
«Non ti sto supplicando», ripeté lei. «E tu non mi devi niente. Ma io lavorerò.»
«E come, con quei piedi feriti?»
«Lavorerò in ginocchio. In cinque anni nessuno mi ha avuto, salvo il principe di Ombria, e stanotte attraversando mezza città ho dovuto lottare perché questo restasse vero. Ci sono altri posti che mi prenderebbero. Ma preferisco lavare in terra con i miei capelli. E anche le tue finestre. Ne hanno un gran bisogno.»
Lui strinse i denti; nei suoi occhi ci fu una luce, come uno spiraglio che si aprisse. «Allora è quello che farai», disse, sottovoce. «Laverai in terra con i tuoi capelli. Se domattina sarai ancora qui, per rispetto alla memoria di tua madre non ti butterò fuori.»
Lei allargò le mani che quel mattino erano state morbide come piume, ingioiellate, pulite, profumate. Adesso sangue e polvere le segnavano, e i graffi erano i suoi soli gioielli.
«Dov’è il secchio?» domandò.
«Quello te lo do io», rispose il padre, e si chinò dietro il bancone a prendere il suo futuro.
2
Il cuore incantato
Mag aveva sette anni quando scoprì di essere umana. Fino ad allora lei era stata soltanto ciò che Faey chiamava «la mia figlia di cera». Che Faey potesse fabbricare una ragazzina con la cera per farsi aiutare in questo e in quello, era fuori discussione. Mag non sapeva cosa fosse stata la sua vita prima che Faey la costruisse. E quando Faey le aveva dato la memoria — la memoria e quei furbi occhi curiosi che andavano dappertutto nell’antica città di Ombria — farne uso era diventata la sua principale attività.
Faey viveva, per quelli che sapevano dove trovarla, dentro il passato di Ombria. Parte del passato della città si trovava sotto le strade, nei grandi tunnel di vecchia pietra arenaria, tra le baracche, i palazzi e i fiumi sotterranei che Ombria scrollava via come una pelle dimenticata, seppellendoli entro di sé nel corso dei secoli. Altre parti erano meno accessibili. Tutti conoscevano il passato, così come conoscevano l’odore delle rose selvatiche, dello sterco e delle salsicce fritte, la direzione del vento e il grido dei gabbiani intorno ai moli in rovina. Ma sebbene dessero importanza alle salsicce e all’aria, pochi prestavano attenzione al passato della città. Questo stava bene a Faey, che viveva sul confine tra il passato e il presente. Chi aveva bisogno di lei, seguiva l’odore del suo lavoro e la trovava. Altri invece potevano scambiarla per qualcosa di vago, come un’ombra imprecisa all’estremità di un vicolo, e conducevano le loro incessanti, complesse manovre sopra la sua testa, senza mai sapere in che modo le loro vite echeggiavano giù negli intricati percorsi del tempo, nei sotterranei della città.