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«No.»

«Perché?»

«Questa è una buona domanda.»

Lydea aspettò invano la risposta. Alla fine cedette e tentò in un altro modo. «Cosa gli avete fatto? Mi sarebbe utile saperlo, se non volete che muoia.»

«Era nel carboncino.»

«Che cosa c’era?»

«Il veleno.»

Lydea sentì Ducon mormorare un’altra parola incomprensibile. Alzò la mano libera e gli sfiorò gli occhi chiusi, con dita gelide. «Avete un antidoto?»

«Sì», rispose la maga. «Me stessa. Dopo, lui sarà molto debole. Avrà bisogno di qualcuno che lo accudisca. Se quella donna ha preso la mia bambola di cera, mi farò un brodo con le sue ossa.»

«Vorrei che voi lo faceste», si augurò fervidamente Lydea. «Così resterà solo una di voi due.»

Faey la fronteggiò così all’improvviso che gli occhi stupiti di Lydea non capirono come avesse fatto a voltarsi. Il volto ben curato della maga era una maschera di gelida contrarietà. «Non riesco a immaginare cosa ti autorizza a insinuare che lei e io siamo uguali.»

«Io non l’ho insinuato», disse Lydea nel modo più cortese che poté. «Io l’ho detto. Voi siete proprio una uguale all’altra, non vedo nessuna differenza tra voi due. Siete voi quella che ha cercato di uccidere Ducon, non Domina Pearl. Vivendo quaggiù, al sicuro con la vostra magia, non avete bisogno di preoccuparvi di niente e di nessuno. Se voi aveste ucciso Ducon, avreste spezzato il cuore di Kyel. E lui, anche se è soltanto un bambino, è il principe di Ombria. Se il suo cuore si seccherà, questo accadrà anche a Ombria. Non che a voi importi molto, se la città che sta sopra la vostra testa sparirà. Ci vorrà un secolo o due, prima che ve ne accorgiate.»

Gli occhi azzurri la guardarono senza espressione. Poi la maga riprese il cammino, in direzione di una grande dimora che dava l’impressione di essere affondata nel suolo sotto il peso delle enormi colonne del porticato anteriore.

La sua voce raggiunse Lydea. «Ci sono delle cose a cui tengo. Per esempio la mia figlia di cera.»

«Ha un nome», le ricordò freddamente Lydea, affiancandola. «Si chiama Mag.»

«Lo so. L’ho battezzata io.»

«Lei non è una cosa fatta con la colatura delle vostre candele. Chi è? È vostra figlia?»

Qualcosa scaturì dalle labbra della maga, come se avesse sputato un lampo. Ducon mandò un improvviso grido di dolore. Lydea si premette le mani sulla bocca, con forza.

«Non immischiarti», la avvertì sottovoce Faey, senza voltarsi. «Non metterti tra me e la mia bambola di cera. Lei appartiene a me, e lavora al mio servizio. Questo è tutto ciò che ti serve capire.»

«Io non capisco niente di niente», mormorò Lydea.

Riconobbe la grassa ed efficiente governante che aprì loro la porta, e notò che non rivelava, neppure con un palpito di ciglia, nessuna sorpresa alla vista dell’uomo riverso su una spalla della maga.

«Nella stanza dei pavoni, suppongo, eh?» domandò Faey. La governante annuì senza aprir bocca, e prelevò un candelabro acceso con cui far strada alla padrona su per lo scalone di marmo.

In una camera dalla tappezzeria in penne di pavone multicolori, la maga lasciò cadere Ducon tra i cuscini vellutati di un letto, e si voltò verso la porta come per chiamare qualcuno. Ma subito scosse il capo. «Dimenticavo. Non posso mandarci lei a prendere il mio rospo.» Sospirò, ignorando l’espressione perplessa di Lydea che non capiva di cosa parlasse. «Tu resta qui e occupati di lui.»

Detto questo, uscì in fretta. Lydea cercò d’immaginare cosa fosse tutta quell’urgenza di procurarsi un rospo, poi lasciò perdere. Stava spogliando Ducon, quando la silenziosa governante rientrò con un catino d’acqua e degli asciugamani. La donna lasciò che fosse Lydea a lavare il giovane, sporco di polvere di carbone, fango e sangue. Era di nuovo svenuto, e respirava in modo faticoso e irregolare. Poco dopo, mentre la governante la stava aiutando a metterlo tra le lenzuola, Faey fece ritorno.

Aveva con sé una scatola di legno, che aprì senza por tempo in mezzo, e con gesto esperto ne tirò fuori un grosso rospo. Lo sollevò sul palmo, fino all’altezza degli occhi. Poi, in silenzio e guardandosi dritto nelle pupille, il rospo e Faey conversarono. O almeno, questa fu l’impressione di Lydea, che stava cominciando a conoscere i metodi della maga. Gli occhi del rospo si socchiusero fino a diventare fessure di tenebra sottili come un capello.

La maga depose il batrace sulla fronte di Ducon.

Subito si mise un dito sulle labbra con un’occhiata d’avvertimento a Lydea, che col cuore in gola davanti a quelle stranezze stava per domandare qualcosa. Dopo averla così azzittita, Faey toccò dolcemente la testa del rospo col polpastrello dell’indice. Poi chiuse gli occhi.

Lydea andò ad appoggiarsi a uno dei massicci pilastri d’ebano che sorreggevano il baldacchino del letto, e vi si aggrappò con forza. Il rospo era del tutto immobile, e anche la maga. Da lì a poco la ragazza si accorse che il respiro di Ducon rallentava, facendosi profondo e regolare. Quello della maga andava esattamente a ritmo col suo. Lydea adeguò la sua respirazione alla loro, d’istinto.

All’improvviso il rospo parlò. La parola che disse era contenuta entro una bolla di liquido lattescente emersa dalla sua mandibola sdentata, simile a una perla. Faey aprì gli occhi e allungò con prontezza una mano a ricevere la perla. La lasciò cadere dentro la scatola. Il rospo aprì gli occhi e mosse le zampe palmate. Faey lo guardò sgranchirsi le membra con un sorrisetto affettuoso.

«Mio bel tesoro», mormorò, e gli baciò il dorso bitorzoluto. Poi lo rimise nella scatola. «Ti ringrazio. E adesso devo riportarlo di sopra e dargli da mangiare», disse a Lydea, che cominciava a chiedersi per la prima volta da quand’era entrata nella bottega della maga se non stesse sognando tutto quanto. Ma lì con lei c’era Ducon, il cui volto rigido si rilassava e pian piano perdeva quello spaventoso pallore.

«Se ti serve qualcosa per lui, dillo alla governante. Io vado a cercare la mia bambola di cera.»

«Per favore», la supplicò disperatamente Lydea. «Vi prego, potete mandare qualcuno a dire a mio padre che non si preoccupi per me? Starà pensando che sono stata aggredita o uccisa, o che l’ho lasciato di nuovo.»

Faey si volse alla governante. «Manda un inserviente di cucina», le ordinò. «Uno vivo.»

«La taverna si chiama Rosa e Spina», disse Lydea alla corpulenta donna in uniforme, con la cuffietta di pizzo bianco. Quest’ultima esitò, e gettò uno sguardo interrogativo verso Ducon. «Ah, sì. Per lui un po’ di brodo», aggiunse Lydea. «Quando si sveglierà.»

«Porta da mangiare anche per la ragazza», ordinò Faey alla governante. «E ora non voglio essere disturbata da nessuno, vivo, morto o moribondo.»

Rimasta sola con Ducon, Lydea spostò una sedia accanto al letto e sedette, senza far altro che guardare quel volto inerte. Anche i suoi pensieri erano inerti, per magia o per stanchezza. Quando la governante le portò un vassoio con del cibo, lei bevve un po’ di vino e mangiò del pane, un boccone dopo l’altro, finché la testa le ricadde indietro sulla morbida imbottitura della sedia e si appisolò. Sognò di qualcosa che le sfuggiva dalle mani, e lei lo perdeva. Riaprì gli occhi di colpo. Ducon era ancora privo di sensi. Il pezzo di pane le era caduto in terra. Lei si alzò, sentendosi così insonnolita che non si sarebbe sorpresa di essere sotto incantesimo. Si sdraiò sul largo letto accanto al giovane, e chiuse gli occhi.

Quando si svegliò di nuovo, lui era rinvenuto e la stava fissando.

«Lydea?» sussurrò. Incredulo si guardò attorno, in quella lussuosa camera sconosciuta. Poi, con dolorosa lentezza, alzò la coperta di velluto e scrutò il proprio corpo nudo. Si girò verso di lei, osservò il suo grembiule sporco e il berretto malconcio da cui sfuggiva qualche ciocca di capelli. Deglutì a vuoto. «Non capisco.» La sua voce era rauca e debole, insonnolita. «Cos’ho bevuto, ieri sera? Non mi sono mai sentito così male in vita mia. Dove siamo?»