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«Sono soltanto fantasmi. Io sono cresciuta in mezzo a loro, giù nel passato di Ombria.»

Mag vide una luce avida accendersi negli occhi dell’uomo, come se gli avesse parlato di un grande tesoro sepolto sotto la città. In tono intenso lui chiese: «Come posso trovarti?»

Lei glielo disse. Camas Erl non le fece altre domande mentre scendevano le scale; aprì la porta dalla serratura incantata e la lasciò libera.

15

Cera e carbone

Ducon fece un sogno, e al suo risveglio ricordò tutto. Nel sogno aveva seguito un uomo alto dai capelli bianchi nelle affollate strade di Ombria, sempre con l’impressione di essere sul punto di raggiungerlo, ma ogni volta restando con un pugno di mosche. Sul più bello la porta di una bottega si era aperta e la gente si era intromessa, separandoli; poi una banda di monelli era stata inseguita da un pasticcere irritato, e i dolciumi rubati si erano sparsi sotto i suoi piedi facendolo scivolare; infine un duello era scoppiato con improvvisa e selvaggia ferocia dinanzi a lui costringendolo a fermarsi. A questo punto, era rimasto a guardare la testa bianca che si allontanava senza neppure voltarsi indietro, mentre i duellanti si affrontavano intrecciando le spade in un’insuperabile barriera d’acciaio dinanzi a lui. Aveva gridato disperatamente: «Aspetta!» alla figura ormai lontana. Poi si era trovato da solo, nel dedalo di stanze nascoste del palazzo, in cammino verso il posto in cui sapeva, con assoluta certezza, che lo sconosciuto col suo volto lo aspettava.

Ma si era svegliato prima di raggiungerlo.

Ancor prima di aprire gli occhi ripensò al viso che aveva preso forma inaspettatamente sul foglio, quasi che fosse emerso dal carboncino invece che dalla sua mano. Il viso era stato uno dei molti imprevedibili disegni di quella sera. E adesso dov’era quel carboncino che brillava nel buio?

E dove si trovava lui?

Su una sedia accanto al letto c’era Lydea, che lui ricordava di aver visto l’ultima volta con indosso un lurido berretto e un grembiule macchiato di birra. Evidentemente i suoi abiti avevano offeso l’occhio della padrona di casa — la maga di cui la ragazza aveva parlato — perché ora indossava un bel vestito di velluto verde, di un’elegante semplicità ormai fuori moda da un centinaio d’anni. Soltanto il volto e le dita erano visibili. La ragazza sembrava assorta nella mesta contemplazione del suo destino, ma si voltò subito, come se lo avesse sentito svegliarsi.

Gli toccò la fronte, poi gli fece alzare la testa e gli mise alle labbra una tazza d’acqua. Mentre beveva lui fu stupito dal sapore di carbone che aveva in bocca; si domandò se ne avesse ingoiato un pezzo.

«Spiegami ancora», le chiese, con voce rauca, «perché siamo qui.»

Lei glielo aveva già detto, qualche tempo prima. Gli era parso di ascoltare il racconto di un sogno improbabile. Stavolta tenne la sua attenzione sul percorso che il carboncino aveva seguito, dal calderone della maga al servo del Nobile Sozon, e infine alla scatola che lui portava con sé quando disegnava.

«Il veleno era nel carboncino», disse Lydea. «È filtrato attraverso la tua pelle.»

Lui annuì. «Hai detto che questo mi è accaduto in ogni posto dove sono stato. Non l’ho notato.» Il semplice movimento del capo, e lo sforzo di quelle poche parole, pretesero un prezzo. Il dolore, come una bestia ferita, si agitò nella sua testa. Cercò d’ignorarlo. «Dov’è, adesso?»

«Dov’è cosa?»

«Il carboncino.»

Lei sembrò perplessa. «Non lo so.»

«Lo tenevo in una scatola di legno. Nella tasca della giubba.» Ducon formulò le parole con attenzione.

Lydea annuì e si alzò dalla sedia. Il giovane vide che su una cassapanca c’era la sua giubba, malconcia e insanguinata. Lei la raccolse. Da una tasca uscì solo un pezzo d’intonaco; l’interno dell’altra, mezza squarciata, era macchiato di umide sostanze multicolori.

«Cosa c’era in quella scatola?»

«Acquerelli. Carboncini da disegno.»

«Devi averla spaccata quando ci sei caduto sopra.» La ragazza depose la giubba e tornò accanto al letto. «Non preoccuparti. Ora quel carboncino non è più un pericolo per te.»

Negli occhi di lui apparvero lacrime di dolore, e d’impazienza per la sua debolezza. «Mi piaceva come disegnava.»

Ducon dormì ancora. Stavolta, nei suoi sogni, una mostruosa e bellissima maga se lo gettava su una spalla e lo trasportava attraverso il fondo deserto di un’immensa caverna. A testa in giù, respirando nel tessuto vaporoso della sua manica, cercò di patteggiare con lei per riavere il carboncino.

«Vi farò il ritratto», le offrì a un certo punto.

«A quale delle mie facce?» domandò lei. Poi la sua risata echeggiò rauca tra le rocce, e lui si svegliò.

Oppure pensò di essersi svegliato. La maga incombeva ancora su di lui. La riconobbe, anche se nel sogno non aveva quel viso, né il viso che lui aveva intravisto quando Lydea lo aveva trovato tra le macerie e si era chinata, chiamandolo per nome.

La maga indossava il suo potere sotto forma di un largo mantello multicolore, visibile soltanto se non lo si guardava direttamente. Lo vedeva fluttuare dietro il suo corpo, fino a riempire la camera e traboccare oltre la porta, oltre la casa di lei, come un secondo fiume sotto il mondo. Il viso che indossava, tempestoso e bello, era soltanto una maschera.

Ducon disse: «Non mi stupisce che voi abbiate riso».

Lei tacque un momento, mentre i colori le vibravano attorno. I suoi occhi scuri sembravano enormi. «Cosa vedi?» gli domandò. Lui conosceva quella voce; aveva infestato il suo respiro e il suo sangue, per ucciderlo. Ma adesso lui era lì, in un letto della sua casa, e lei aveva cambiato idea, per nessuna ragione comprensibile.

«Vedo voi», le rispose.

Il potere selvaggio svanì, si nascose. Lui restò con la sola compagnia del suo corpo, abbastanza affascinante con quelle fattezze orgogliose, la massa disordinata dei capelli scuri e il volto dall’espressione sempre mutevole. Ma questo lo indusse a chiedersi cosa sarebbe successo se avesse cercato di ritrarre a carboncino il suo viso: sul foglio sarebbe emerso invece l’altro, quello nascosto?

Bruscamente lei domandò: «Tu conosci Mag, la mia figlia di cera?»

«Non credo. Posso cercare di ricordare se…»

«Se la conoscessi, non ne avresti bisogno. Lei va in giro per la città, fa commissioni per me. Le piacciono i segreti. Lydea dice che ti stava spiando.»

«Spiando me?»

«Ti sembra possibile? Può anche essere venuta nel palazzo, mentre ti pedinava senza che tu lo sapessi?»

Lui stava per annuire, ma ci ripensò. «Il palazzo è pieno di segreti», disse. La sua voce era esile come quella di un vecchio. «Alcuni appartengono a Domina Pearl, altri sono residui del passato. Altri ancora… non so a chi appartengano.»

Lei sibilò qualcosa in tono così secco che Ducon si sentì vibrare le ossa come una campana. Fece una smorfia. La maga gli toccò la fronte. Quando ritrasse la mano lui vide il verme molliccio del dolore, lucido e sussultante, appiccicato alle sue dita. Lei lo scosse via con fare distratto.

«Scusami», disse. Lui la guardò stupefatto.

La maga fece un passo indietro e si guardò attorno con gli occhi socchiusi, così scuri che non riflettevano neppure un barlume di luce. «L’ho perduta. Eppure l’avevo avvertita di stare lontana da Domina Pearl.»

Nel silenzio che seguì lui udì le domande inespresse che salivano alla mente della maga. Poi lei parlò, e Ducon non sentì più niente.

Fu dopo molto tempo che scivolò di nuovo a contatto col mondo, seguendo un odore. Rosmarino, pensò, o arancio. Aprì gli occhi e scoprì di essere solo. Lydea se n’era andata, forse nei sogni di qualcun altro. Ma il cibo sul vassoio accanto al letto non era un sogno: pollo arrosto insaporito con rosmarino e ornato con fette d’arancio, pane ancora caldo di forno, una tazza di fichi e uva nera. Si tirò a sedere, cautamente. La testa non gli doleva più. Si sentiva vuoto, stanco e, per la prima volta in parecchi giorni, affamato.