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Questo gliel’aveva detto Royce. Il ricordo di lui la intristì, mentre continuava a cercare. L’antichità e il lusso in casa della maga, l’arredamento sempre diverso delle stanze, e lo stesso abito di velluto che Lydea indossava, contribuivano a farla sentire uno spettro, come se la sua vita nel palazzo fosse ormai un passato vago, risalente a prima della sua morte.

Rispolverando quei ricordi sentiva la voce allegra e fiduciosa di Royce raccontarle varie cose, illustrarle l’uso di bizzarre armi dimenticate, e spiegarle il motivo di certe espressioni sul viso di questo o quell’altro antenato. Strano, pensò, che l’intuito e la percettività di lui non gli avessero permesso di prevedere la sua prematura fine. Cercò di confortarsi col pensiero che Royce, convinto di vivere in un mondo dove nulla sarebbe mai cambiato, era stato felice.

Un volto incorniciato sul fondo di una lunga sala da ballo la fermò. Faey aveva indossato quegli occhi azzurri, quelle pallide e sdegnose sopracciglia arcuate, ed evidentemente le indossava ancora, perché d’un tratto le labbra severe si aprirono e da esse scaturì la roca e volitiva voce della maga.

«Sono qui», la informò la donna del dipinto.

«Qui dove?»

«Prosegui sempre dritto, tre porte più avanti.»

Le mobili labbra tornarono a solidificarsi nello strato di pittura a olio. Lydea si disse che in quel limbo di realtà capovolta era meglio non pensare troppo, spalancò i battenti decorati della porta in fondo alla sala e di altre due belle anticamere, fino a quella che sembrava un elegante spogliatoio.

La maga sedeva su una poltroncina smaltata, in mezzo a grossi attaccapanni d’ottone e scaffalature vuote. L’unico indumento era un mantello appeso dietro di lei, di seta color vinaccia col bordo in ermellino bianco. Faey, con le trecce nere annodate sopra la testa e fissate con spille floreali in madreperla, dava l’impressione di essersi chiusa lì come in castigo per aver lasciato esposta al pericolo la sua figlia di cera.

La maga guardò Lydea con espressione cupa. «Ti avevo detto che non mi piace essere disturbata. E tu mi stai disturbando. Cosa c’è?»

«Io vi aiuterò», rispose lei con voce ferma, «se voi aiuterete me. E posso pagarvi.»

Lo sguardo della maga rimase duro, ma con una luce d’interesse in più. «Con cosa?»

«Con quello che mi è rimasto. Ho degli zaffiri…»

«Anch’io. E anche rubini, e smeraldi.»

«E ho anche…» La voce di Lydea vacillò, tornò a rafforzarsi. «Ho questo anello.»

Lo tolse dalla scollatura: un opale nero incastonato in oro e circondato da rare perle azzurre, dono di Royce.

Faey si piegò in avanti a esaminarlo. «Bellino», concesse, distrattamente. Strinse le palpebre. «Dovresti portarlo appeso a qualcosa di meglio di quel sudicio nastro.»

«In città è pericoloso mostrare cose del genere.»

«Perché vedo la mia bambola di cera dentro quell’opale?»

Lydea sbatté le palpebre. «Forse perché fu lei a salvarlo per me?» suggerì. Lo sguardo di quegli occhi abissali tornò su di lei.

«Pensi di aiutarmi. Come?»

«Voi potete cambiare volto a vostro piacere. Datemene un altro, così potrò tornare nel palazzo e vegliare su Kyel. Là dentro potrò cercare Mag, senza che nessuno sospetti di me.»

«Cosa ti fa credere che la Perla Nera non vedrà sotto qualsiasi maschera tu porti?»

«È lei che paga voi per la vostra magia. Come potrà vedere attraverso una maschera fatta da voi?»

Le sopracciglia scure, curve come ali di corvo, volarono ancora più in alto. Per un momento Faey sembrò risucchiarsi dentro se stessa; il suo collo scomparve; la sua colonna vertebrale cominciò a mescolarsi con le ginocchia. Poi, mentre Lydea guardava tra affascinata e inorridita, la maga allungò di nuovo il suo corpo nelle primitive eleganti proporzioni.

«Non sono sicura di ciò che quella donna possa o non possa fare», borbottò con una smorfia. «Io la credevo una specie di fantasma della Casa dei Greve, che rifiutava di morire e sì teneva in piedi con un estratto di ali di scarafaggio e ambra. Non le ho mai prestato molta attenzione. Non so quale potere abbia acquistato nell’ultimo secolo. Ripensandoci, vedo di averle fornito una notevole quantità di incantesimi.» Per un momento rifletté in silenzio sulla Perla Nera, quindi aggiunse: «Ho mandato fuori Mag a comprare delle anguille per la cena. Quella è stata l’ultima volta che l’ho vista. Potrebbe essere ovunque, intorno al palazzo. Potrebbe essere fuggita, o esser stata rapita dai pirati, o essersi innamorata…»

«Se fosse morta, voi lo sapreste?»

«Certo che lo saprei», affermò con energia Faey. «L’ho fatta io.» Ma una luce d’incertezza e disagio nei suoi occhi suggeriva il contrario. Senza guardare Lydea, domandò: «Tu non lo sapresti se qualcuno fatto da te… o un bambino umano legato a te, per esempio Kyel… fosse morto?»

«No.»

La maga esibì un’espressione illeggibile. «Questo non puoi saperlo. Tu non hai mai fatto un figlio.»

«No», sospirò Lydea. «È per questo che voglio stare accanto a Kyel. Mi aiuterete?»

La maga allungò una mano a palmo in su.

Lydea disfece il nodo del nastro a cui aveva appeso l’anello. Ciò che depose sulla mano di Faey erano ricordi senza prezzo, un simbolo d’amore e di fedeltà ben più preziosi della gemma e dell’oro. La maga, infilandoselo a un dito, vide soltanto il volto della sua bambola di cera nell’opale.

Scrutò Lydea con occhio pratico. «Il bambino riceverebbe ben poco conforto da un’estranea che volesse convincerlo di essere te», disse con inattesa sensibilità. «Dovrai tenere il tuo volto.»

Lydea annuì, con riluttanza. «Avete ragione. Probabilmente lui mi crede morta; dopotutto sono scomparsa come suo padre, quella stessa notte. Se mi presentassi con un volto strano, potrebbe pensare che sono una serva di Domina Pearl e stia cercando d’imbrogliarlo. Ma come…»

«Oh, ci sono delle cose che posso fare per mimetizzarti agli occhi altrui», mormorò Faey, prendendola per il mento con le dita ingioiellate e facendola voltare da una parte e dall’altra. «A patto che non ti trovi di fronte a Domina Pearl. Non ho idea di quanto a fondo possa vedere nella mia magia. L’ho rifornita di talismani e altre cosette per anni.»

«Perché?» domandò poco diplomaticamente Lydea. La maga, contemplando il passato, parve chiedersi la stessa cosa.

«Lei pagava, io facevo. Erano affari. Non ho mai pensato niente di lei, salvo che mi piaceva poco. Ma non ero contraria a procurarle tutto quello che mi chiedeva. Mi sembrava una persona di poca importanza, fino a ora. Io vivo da molto tempo; ho visto gente nascere e morire. Mi aspettavo che anche lei sparisse.» Faey fece una pausa, e i suoi occhi erano vuoti e oscuri. «Ti suggerisco di non far nulla che attiri la sua attenzione. Non cercare la mia figlia di cera. Se è stata quella donna a prenderla, andrò io stessa a rintracciarla nel palazzo. E neppure Mag potrà riconoscermi mentre lo faccio.» Lydea annuì, senza dir niente. «Ma prima di permetterti di lasciare la mia casa, tu dovrai aiutare Ducon a guarire bene.» Le accennò che poteva andare, e mentre Lydea si voltava, aggiunse: «È strano, non credi, che lui voglia indietro quel pezzo di carboncino. Ti ha detto perché?»

«Ha detto solo che gli piacevano i disegni che uscivano da quel carboncino. Io ho pensato che delirasse. Ci avete messo dentro qualche altra cosa, oltre al veleno?»

«Solo dei vecchi dipinti… lui riesce a trasformare in arte perfino la sua stessa morte.»

«Voi lo avete quasi ucciso.»

«Non essere così pignola.»

«Ma qualcosa vi ha fermato. Qualcosa in lui. Che cosa?»

La Maga contemplava un attaccapanni d’ottone come se davanti a lei ci fosse un mistero, un enigma non risolto. «Lui vede più di quello che dovrebbe», rispose. «Più di quanto sia umano vedere.»