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Mentre Lydea cercava d’immaginare cosa ci fosse di più umano da vedere nel mondo comune, si trovò fuori dallo spogliatoio senza capire come ci fosse arrivata.

Ritrovò la strada, o fu la maga a trovarla per lei, fino alla camera dove Ducon stava dormendo. Si fermò a osservarlo. A parte il mistero del suo colore, o della sua mancanza di colore, appariva umano come chiunque altro. Poi il giovane aprì gli occhi, e per qualche momento sembrò non vedere niente. Mugolò qualcosa, si mosse, allungò una mano fuori dalle coltri e la afferrò per un polso.

Lydea si piegò verso di lui. «Cos’hai detto?»

«Carta.» Ducon aveva lo sguardo annebbiato. «Mi serve della carta.»

«D’accordo, ci penso io», sospirò lei. «E cos’altro?»

«Carta da disegno.»

«Be’, non pensavo che la volessi per altri scopi.» Lei gli toccò la fronte; era calda di febbre. Sempre meglio del gelo che il veleno del rospo gli aveva insinuato nelle membra, pensò. Ma non era ancora abbastanza per potersene andare da lì. Gli fece bere un po’ d’acqua. «Devi guarire», lo supplicò. «Pensa a come soffrirà Kyel, altrimenti.»

Gli occhi argentei di lui la misero a fuoco: una persona di carne e ossa, che stava lì con lui nella realtà e non nel sogno, con un volto che lui riconosceva, e con pensieri che avrebbe potuto immaginare se ci avesse provato. Quanto era strano. Quant’era strano essere in un sogno un momento prima, e nel mondo un momento dopo, e capire la differenza in un batter d’occhio.

«Hai una strana espressione», osservò lui, insonnolito.

«Stavo solo pensando.»

«A cosa?»

«A come sappiamo che una cosa è reale. A come possiamo svegliarci in un posto senza tempo e riconoscere il tempo. A come tu riconosci me, adesso e qui, quando niente e nessuno di questo posto ti è familiare. Nei tuoi sogni avrebbe potuto esserci un’altra Lydea, ma quando hai visto me hai saputo subito che ti potevo portare la carta.»

Lui tacque così a lungo, stringendole il polso, da farle pensare che si fosse addormentato a occhi aperti. Infine mormorò: «Dillo ancora».

«Non posso», rispose lei, stancamente. «Era solo un pensiero. Te l’ho confidato.»

«Era qualcosa sui sogni che diventano veri.»

«Non è questo che ho detto.»

«È quello che io ho sentito.» La sua mano si aprì; le sorrise, con occhi lucidi come l’acqua. «Non c’è da stupirsi che mio zio ti amasse.»

Lei non fece caso a quelle parole; un effetto della febbre, pensò. Ma per quanto febbrile fosse il suo bisogno di carta, Ducon non vi rinunciò: Lydea doveva procurargliela subito, perché lui potesse constatare se la magia era ancora nel carboncino o era svanita col veleno mortale. Lei lo lasciò a metà di un discorso sconnesso sulla morte e sull’arte, e andò a cercare la governante.

Con l’aiuto della donna riuscì a trovare una risma di fogli pesanti e di ottima qualità, in una vecchia cassapanca del solaio. Nel corso degli anni la carta era stata smozzicata ai bordi dai topi e dalle tarme, ma Ducon sembrò non badarci. Lydea lo fece mangiare prima di consegnargliela. Poi rimase seduta accanto a lui, irradiando pazienza, ma dentro di sé mangiandosi le unghie. Si chiedeva se avrebbero ancora trovato qualcosa di familiare nel mondo sopra di loro, quando la maga si sarebbe decisa a lasciarli andare.

Ducon disegnò per ore. Schizzi di soggetti a caso scivolarono giù dal letto fino a formare un’isola di carta intorno ai piedi di Lydea. Sia capovolti che girati di traverso erano ben riconoscibili come gli angoli che lui ricordava delle strade e delle taverne di Ombria: muri corrosi dal vento, alberi di navi, botteghe, carri, monelli dai piedi nudi, mercanti, animali al lavoro, gente che sedeva a bere e a chiacchierare. Questo fu ciò che coprì il pavimento, dapprima. Poi, mentre il tempo passava, oppure non passava, lì nella casa della maga, a essi si aggiunsero scorci del palazzo, stanze arredate con lusso, facce di cortigiane dal trucco squisito, e anche — vide Lydea con stupore — mani callose di servi che portavano un secchio di carbone o un vassoio.

Lui aveva visto tutto, rifletté Lydea, più cose di quante lei avesse mai notato, anche se fino a quel momento non c’era nulla che non fosse umano. E il pezzo di carboncino, che avrebbe dovuto ridursi a un mozzicone fin dall’inizio di quel suo viaggio sulla carta, non aveva ancora cambiato forma.

Ducon ritrasse anche lei, mentre si era appisolata per un poco. Il volto che le diede era tratto dai suoi ricordi, e lei stentò a riconoscersi: quella che la guardava dal foglio era un’ingenua e amabile giovane donna, con un diadema di perle sull’elaborata acconciatura e un sorriso controllato, rigido. Una mano graziosa era sollevata a toccare una gemma che le pendeva dal collo. Le unghie erano corte e smozzicate.

Nel guardare il ritratto Lydea fece una mezza risata, un po’ commossa. «Ero così trasparente?»

Lui annuì, indifferente, mentre già cominciava un altro disegno. Aveva più carbone sulle mani e sulla faccia che su uno dei suoi fogli. Sembrava ossessionato, sotto incantesimo; il magico carboncino non gli permetteva di smettere.

«Questa è l’espressione che ti vedevo sempre. Mio zio ti vedeva in modo molto diverso, ne sono certo. Ma quel viso tu non lo mostravi a me.»

«Mi sembra molto tempo fa», mormorò lei, lasciando cadere il disegno tra gli altri fogli.

«Ti sembra molto tempo fa perché sei andata lontano, da allora.»

«Dal palazzo alla taverna, alla casa della maga… Ma ora dovresti riposarti», lo pregò, di nuovo preoccupata, immaginando i disastri che potevano essere successi nel mondo di sopra: suo padre inferocito e disperato, Kyel ipnotizzato dalla Perla Nera e incapace di riconoscere chiunque. «Per favore, basta.»

Lui parve non udirla. Il suo modo di disegnare cambiò ancora. Stavolta dal carboncino uscirono camere vaste e lussuose ma in stato d’abbandono. Le stanze della casa della maga, suppose Lydea dapprima. Però quella in cui Ducon si trovava era l’unica che avesse visto, e nei disegni c’erano lunghi corridoi e strani locali che alla ragazza riuscivano nuovi. Sembrava che lui stesse raffigurando il trascorrere del tempo: la vernice scrostata di muri e soffitti rivelava antiche decorazioni sottostanti; sotto le tappezzerie strappate apparivano altre tappezzerie, e sotto queste ultime l’intonaco, e mattoni sotto l’intonaco dove questo cadeva a pezzi. Affascinata e a disagio lei si domandò dove mai Ducon poteva aver visto quelle immagini, e in quali strani ambienti si fosse avventurato.

A un certo punto, prima che Lydea se ne accorgesse, il giovane si fermò. Rimase seduto a osservare il suo ultimo disegno, e lei attese che anch’esso volasse sul pavimento, come un’altra pagina della storia che stava raccontando. Quando vide che lui non lo gettava via, si piegò su una sua spalla per guardarlo.

Era un ingresso, in un vecchio muro che sembrava piangere pioggia. Ma dove avrebbe dovuto esserci la porta non c’era niente, tenebra, carbone. A parte un… Lydea si chinò ancora per osservarlo meglio, e vide linee emergere dal buio: l’accenno di un viso e un vago alone di capelli chiari.

Il carboncino cadde dalle dita di Ducon. Il giovane si appoggiò all’indietro, con gli occhi socchiusi, fissando il disegno come se fosse convinto che da un momento all’altro la figura sarebbe uscita alla luce mostrando il suo viso.

«Ecco», sussurrò. Aveva finalmente raggiunto il posto dove la misteriosa storia raccontata dal carboncino terminava, o era cominciata. «Ecco.»

Chiuse gli occhi.

Lydea raccolse il foglio che stava scivolando al suolo.

17

Sangue e rose

Mag trascorse quasi due giorni nelle strade di Ombria in cerca di Ducon, facendo domande con discrezione in tutti i luoghi pubblici che il giovane soleva frequentare. Nessuno lo aveva visto, ma tutti lo conoscevano e le davano qualche suggerimento: aveva provato al Canto del Cigno? E al Cuore Dipinto? E al Re degli Incapaci? Si era ormai aggirata in tutte le viuzze dei quartieri portuali, quando lo scoramento la fece fermare a metà strada tra un bordello e l’ennesima taverna. Nel frattempo il cielo si era riempito di nuvole. Un vento di mare freddo e insistente stava spingendo i mendicanti al riparo nei vicoli più stretti, e sollevava vortici di polvere e foglie che sibilavano in una breve vita rabbiosa prima di collassare. Una raffica le fece sbattere le palpebre, e stancamente pensò: Camas Erl lo ha trovato, oppure è morto.