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Mag, che non si considerava umana, si muoveva con facilità dentro e fuori dai vari posti dove Ombria crollava nel suo passato. A sette anni d’età, conosceva porte in tutta la città. C’era la piccola porta mangiata dai tarli nel muro inclinato dietro la stalla, nel cortile della Locanda dell’Occhio del Corvo. C’era l’ombra in fondo al vicolo del Guantaio, che non cambiava mai posizione né al mattino né al pomeriggio, come gli occhi acuti di Mag avevano notato. C’erano i girasoli nel campo incolto fuori dal cancello occidentale del palazzo del principe di Ombria, che in tutto il giorno non facevano niente fuorché voltare le loro facce dorate dai mille occhi per seguire il sole.

Il principe di Ombria, che Faey chiamava il Reprobo, non si preoccupava di ciò che cresceva fuori della cancellata su gargantuelici steli e talvolta sbirciava entro i confini del palazzo. Se Faey voleva altri occhi, Mag sapeva come farli crescere. La porta che conduceva sotto la città si trovava in mezzo ai girasoli: un buco tra le radici che poteva sembrare la tana di qualche animale, ma in realtà era la cima di un antico camino. Gli scalini che dai moli scendevano in mare conducevano più lontano di quanto chiunque potesse immaginare. Gli scarichi delle fogne stradali, le cantine abbandonate, gli squarci nei muri dei sottoscala, erano porte che perfino i monelli della città avevano scoperto. A volte Mag li vedeva che fuggivano attraverso raggi di luce spioventi dalle grate degli scarichi stradali, finestre rotte e fori sopra le loro teste, o che esploravano le strade segrete, o che frugavano nelle stanze in cerca di tesori dimenticati appena oltre il limite dei loro sguardi, o un momento oltre la portata dei loro passi. Faey non mancava mai di accorgersi di loro, e non permetteva che restassero lì quando mostravano l’intenzione di prendere residenza stabile in quei tranquilli e caldi posti segreti, per riempire la città in rovina con una popolazione di rifiuti della società. Loro si sentivano a disagio se la luce proveniente dall’alto cominciava a svanire, lanciavano sguardi nervosi dietro le loro spalle magre, e si grattavano sentendosi addosso pulci inesistenti.

Faey faceva echeggiare come in vaste distanze le pietre che essi gettavano nei corsi d’acqua sotterranei; faceva sussurrare lugubremente i camini e cigolare le vecchie travi; mandava il gelido respiro di qualche invisibile animale sulle caviglie di quelli che si rifugiavano a dormire nelle cantine, finché costoro uscivano con sollievo dalla pericolosa semioscurità di Ombria.

Mag aveva imparato a muoversi nelle strade come un musicista si muove attraverso la musica, suonandola nota dopo nota con ogni suo respiro, ogni suo tocco. Una voce irosa che l’apostrofasse nel buio poteva renderla invisibile; il tocco di una mano poteva farla semplicemente sparire, giù per uno scarico, sul fondo di un barile o ancora più in basso, attraverso un’ombra o una porta. Non essendo umana, non si chiedeva mai perché gli umani facessero ciò che facevano. Li aveva visti derubarsi l’un l’altro, tagliarsi la gola, spezzarsi il cuore a vicenda. Aveva visto neonati gettati via con la spazzatura del giorno prima. Aveva scavalcato uomini che russavano ubriachi sul selciato; era passata accanto a donne con il volto insanguinato, donne vestite con abiti ricchi o stracciati, donne che piangevano e imprecavano nelle strade dei sobborghi. Poiché lei era di cera, niente di tutto ciò la preoccupava. Avrebbero potuto essere spettri o sogni, finché non cercavano di coinvolgerla nelle loro miserie. Allora lei si fondeva come se la fiamma l’avesse toccata e fluiva via, verso un sogno più sicuro.

Il giorno in cui Mag diventò umana, Faey l’aveva mandata su alla luce con un incarico. Mag aveva in mano un fazzoletto di seta, come le ricche dame che vedeva passeggiare con noncurante eleganza nelle strade. Ogni tanto, come loro, se lo portava al naso. Avvolto nella seta, chiuso tra le sue dita, c’era un talismano di Faey: un piccolo cuore che sembrava d’oro ma era fatto di molte cose. Faey aveva impiegato del tempo a costruirlo. Mag, guardandola e aiutandola, si era sentita più uguale che mai nella sua breve vita ai monelli che correvano avanti e indietro nelle strade affollate. Alla fine anche Faey era parsa esausta, con il viso pallido e la voce tremante di stanchezza. «Porta questo al palazzo», aveva sussurrato. «Al cancello occidentale troverai una persona.» Mag, che aveva una predisposizione per la luce non certo tipica delle cose di cera, si era avviata su lungo le strade che conducevano alla dimora del Reprobo.

Vestita con un abito di pizzo che lei aveva strappato per accorciarlo alla sua misura, con due lunghi guanti neri che qualche dama aveva gettato nel passato, a piedi nudi, portandosi la seta al naso, s’incamminò girando il viso al sole come i girasoli. Non prestava attenzione alle donne che la seguivano con sguardi stupiti, né ai ragazzi che facevano gli spiritosi, ridacchiando, nella sua ombra. Non erano più concreti del fumo, dei sogni abbandonati della deserta città sommersa. Così aveva sempre pensato lei. Ma quel giorno Gram Reed, che aveva fatto pascolare una vacca in un pezzo di terreno verde dietro la Taverna dell’Occhio del Corvo, portò l’animale in strada voltandosi a guardare un carro carico di birra che arrivava sulla sinistra, mentre Dama Barrow, anche lei voltata a guardare il carro, faceva finire il suo vecchio spaniel cieco proprio tra le zampe della vacca.

Lo spaniel guaì; il ruminante girò la testa verso di lui, e in qualche modo il suo grosso naso spugnoso finì tra i denti del cane indispettito. La vacca muggì; lo spaniel ringhiò istericamente, senza mollare la presa. Dama Barrow finì a sedere sui sassi, mettendo in mostra calze di lana, piene di rammendi, sotto una valanga di sottogonne.

Gram Reed, costernato, si chinò ad aiutarla. La vacca, indietreggiando e scrollando la testa, riuscì a liberarsi da quei feroci denti gialli e s’infilò dritta nella porta della Sartoria di Dama Amalee «Moda Intima e Abiti per Tutte le Occasioni». Un assortimento di quelli che sembravano versi di volatili impazziti emerse dal negozio: strida di pappagalli, chioccolii di pavoni, pigolii di fringuelli. La vacca muggì ancora. Ci fu un tonfo, poi la vacca uscì a marcia indietro, trascinando con sé molte braccia di pizzo per orli e due mutande lunghe ornate di nastri, infilate su un corno.

Gram Reed mugolò un’imprecazione. Dama Barrow svenne e perse la parrucca, che cadde in una pozzanghera. Mag rise. Non lo aveva mai fatto in vita sua: la cera non ride. Fu così sorpresa dal suono che emise che si portò il fazzoletto alla bocca con troppa energia. Qualcosa le mozzò il fiato; lei lo deglutì. Fu allora, a metà tra la risata e l’orrore — un posto folle dove, come lei aveva osservato, gli umani equilibravano la maggior parte della loro vita — che capì di essere una di loro.

Deglutì ancora, e sentì il piccolo cuore sciogliersi nella sua gola. Per un secondo ancora fu una bambina scalza dai capelli scarmigliati, vestita con un abito da donna mezzo strappato e un paio di guanti cinque volte più larghi delle sue mani, che guardava una vacca ornata di pizzi e mutande arrivare alla carica verso di lei. Poi l’abitudine la spinse a reagire e scivolò giù per uno scarico fognario, mentre la vacca entrava nella taverna della Rosa Nera.