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«Questo non mi rassicura affatto», mormorò Lydea, innervosita.

«Ma è l’impressione che dai.»

«Non posso neanche mangiarmi le unghie.» La ragazza gli mostrò le dita ornate da ovali di opalescente opulenza. «Non so da dove le abbia tirate fuori, queste. Suole di vecchie scarpe, magari.»

La sua figura alta e snella, notò lui, non era cambiata. Aveva i capelli riuniti in una treccia, annodata sopra la testa, e il loro colore non aveva il brillante rosso di prima, che attirava lo sguardo. Niente di lei appariva notevole, salvo l’impressione di calma intelligenza che lì a palazzo era una dote assai poco apprezzata. L’abito scuro a gonna, disadorno a parte la cintura e il colletto, le conferiva un’aria autorevole che lei non aveva mai posseduto nei cinque anni trascorsi come concubina di suo zio.

«Hai l’aspetto di una vera istitutrice.»

«È una fortuna», borbottò cupamente lei, «visto che so a malapena leggere e scrivere.»

«È più di quanto sappia fare Kyel.»

«Hai parlato a Camas Erl?»

«Sì.»

«Cos’ha detto?»

«Cosa poteva dire? Non gli ho lasciato scelta.» Ducon si massaggiò gli occhi, che gli dolevano un poco. «La Perla Nera sta somministrando a Kyel una pozione, o così suppone Camas, che lo rende passivo. Senz’anima.» In quel momento poté vedere la vecchia faccia di lei, rossa di rabbia. «Non fare così», la avvertì. «Non devi avere quell’espressione.»

«Quale espressione?»

«Rabbiosa. L’emozione è un solvente per l’incantesimo della maga, a quanto pare. Fai per il bambino quello che puoi. Pensa al suo bene. Al bene di tutti noi.»

Lei lo scrutò da vicino, dandogli l’impressione strana di essere ben conosciuto da una sconosciuta. «Ducon, ti senti bene?»

Lui annuì distrattamente. «Sono solo un po’ stanco… Domani ti porterò da Camas, e lui troverà il modo di spiegare la tua presenza a Domina Pearl.» Si guardò attorno nell’umile stanzetta priva di finestre, ammobiliata soltanto con un letto a una piazza, una cassapanca, un catino e una brocca d’acqua. «Ti hanno dato tutto ciò di cui hai bisogno?»

«Se sarò assunta come assistente del tutore del principe, mi hanno detto che il mio rango mi consentirà di avere una stanza solo per me.» Anche la sua voce era quella di un’istitutrice, pensò lui, precisa e riservata. «Qui negli alloggi della servitù è un altro mondo, con le sue regole. Nulla di simile all’ambiente dei cortigiani ai piani superiori, col suo lusso e i cibi sopraffini. Ma non sarò costretta a dividere il letto con una serva, e potrò portarmi un vassoio in camera, proprio come un’ospite o una governante.» Sedette sul letto, mentre Ducon la osservava tra stupito e affascinato.

«Non sapevo che queste camerette fossero così piccole.» Il giovane tornò alla porta. «Ora vado a vedere se Kyel mi ha lasciato qualche disegno. Poi comincerò a cercare Mag.» Esitò, con una mano sulla maniglia. «Hai detto che ha i capelli color paglia?»

«Una gran massa di capelli biondi, sì.»

«E gli occhi?»

«Un’insolita sfumatura castano chiaro. Il colore delle nocciole.»

Lui grugnì, perplesso. «Mi chiedo perché non li ho mai dipinti.»

«Non li hai mai visti puntati su di te. Sii prudente, Ducon», lo pregò lei, mentre il giovane usciva.

«La troverò», disse lui. «Poi ti farò sapere.» Il viso pacato che la ragazza aveva ricevuto non sembrava aver bisogno di rassicurazioni, ma lui le sorrise ugualmente. «Verrò a prenderti domani.»

Ducon stava percorrendo gli eleganti e ariosi corridoi del piano superiore, quando si accorse che nella diramazione che portava al suo alloggio non c’erano soldati di guardia. Subito si fermò, accigliato. Kyel. C’è qualcosa che non va. Un coltello da lancio che avrebbe dovuto colpirlo al collo il passo successivo gli sfiorò il viso e andò a piantarsi nell’occhio sinistro di suo nonno, nel quadro a grandezza naturale appeso al muro.

L’imprecazione dell’aggressore lo fece voltare di scatto, ma era troppo tardi. L’uomo gli arrivò addosso con tutto il suo peso, mandandolo a rotolare sul pavimento. Prima che potesse tirare il fiato, stordito, un pesante stivale lo colpì a una tempia. Cercò di alzarsi e un calcio al ginocchio gli tolse la forza dalla gamba. Vacillò, accecato dal dolore. Due mani robuste gli torsero le braccia dietro la schiena. Qualcun altro lo afferrò per i capelli, rovesciandogli la testa all’insù. Fu allora che lui vide la manticora, il feroce volto umanoide sul corpo di leone, e le due spade d’oro in campo bianco. Dietro di lui c’era il Nobile Marin Sozon, affiancato dal Nobile Greye Kestevan.

Con la coda dell’occhio Ducon vide un lampo metallico. Il freddo taglio di una lama affilata si posò sulla sua gola.

La manticora sussurrò: «Avresti dovuto morire la prima volta». Senza distogliere gli occhi da lui, rivolse un cenno del capo a un altro uomo. «Finiscilo.»

La mano che gli afferrava i capelli lo lasciò prima che la lama colpisse; lui cadde con la faccia sul pavimento e sentì in bocca il sapore del sangue. Poi una massa pesante gli piombò sulla testa, impedendogli di vedere cosa stava succedendo. Le sue braccia restarono libere, e qualcuno gli camminò addosso come se lui fosse parte del tappeto. Intorno a lui c’era un caos di gente in lotta che cercava di fare meno rumore possibile: grugniti, tonfi, ordini appena sibilati. Lui cercò di scrollare via il peso morto che gli gravava sulla testa. Poi qualcuno lo prese per un braccio e lo tirò a sedere, e il suo viso fu immerso per qualche istante in una tunica di seta. Fu fatto girare senza troppi complimenti, e vide di nuovo la manticora, stavolta con un pugnale piantato sull’incrocio zuppo di sangue delle due spade.

Sozon e Kestevan erano spariti. Suo nonno, ora guercio, osservava allegramente un secondo sicario in livrea che rantolava ai piedi del dipinto. Ducon fu aiutato a tirarsi in piedi, e infine poté guardare in faccia i suoi salvatori.

L’ultima volta che li aveva visti era stato sul vecchio molo: i suoi cugini, e i figli dei pericolosi cortigiani alleati di Sozon. Da quella sera l’espressione delle loro giovani facce era diventata più dura, decisa e disperata. Quattro stavano sorvegliando le scale, a ogni estremità del corridoio; gli altri si riunirono in circolo attorno a lui. Nessuno aveva riportato ferite; si erano imposti a Sozon col numero e con la sorpresa.

«Vi ringrazio», disse lui, scosso. «Cosa… dove sono le guardie della Perla Nera? È stata lei a programmare l’agguato?»

Il cugino che lui ricordava meglio, quello con gli occhi brucianti da visionario, spiegò brevemente: «Sozon ha organizzato una diversione in un’altra ala del palazzo. Non appena le guardie hanno abbandonato questo piano, abbiamo capito che preparava qualcosa davanti al tuo alloggio». Prese Ducon per le spalle e lo scosse un poco. «Questo non avrebbe dovuto succedere. Il nostro dovere è di eliminare la Perla Nera, non di batterci tra noi.»

«Vi ho già detto…»

«Tu non ci hai detto niente. Ci hai detto: aspettate. Ci hai detto: vi farò sapere quando avrò bisogno di voi. E per fare cosa? Per andare a ubriacarti in compagnia? Ci hai detto che avresti deciso da che parte stare.»

Lui cercò di rispondere. Dietro i suoi occhi esplose un lampo, e vacillò. Gli altri lo afferrarono prima che cadesse, non senza qualche imprecazione, frustrati.

«È ferito a una tempia.»

«Sembra che abbia dormito ubriaco in un fossato», aggiunse qualcun altro, disgustato. «Portiamolo nel suo appartamento, prima che tornino le guardie.»

«E che ne facciamo dei cadaveri?»

«Cosa vorresti farne? Sono uomini di Sozon… lasciamo che sia lui a dare spiegazioni alla Perla Nera.»