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«Voi sapete…» cominciò lei, stupita. Ma subito tacque, nel vedere lo sguardo dell’altro farsi vitreo. Si voltò.

La Perla Nera stava entrando, con Kyel. Teneva una mano su una spalla del bambino, ma i suoi occhi erano sull’estranea a colloquio con Camas Erl.

Lydea sentì che il sangue le defluiva dal volto. Con sollievo notò che Kyel non poteva vederla bene, anche perché camminava a capo chino.

Con uno sforzo ricordò a se stessa che la Perla Nera e Kyel erano la reggente e il principe, e dinanzi a loro s’inchinò profondamente, evitando lo sguardo scrutatore della donna.

«Mio signore, mia signora, questa è la maestra Spina», la presentò Camas Erl con modi tra bruschi e indifferenti. «Mio signore Kyel, lei vi insegnerà a leggere e scrivere.»

Lydea azzardò un’occhiata al bambino, con aria impassibile. Lui non l’aveva ancora degnata di uno sguardo e non rispose al tutore.

«Il principe non dovrà mai essere lasciato solo con la maestra Spina», decretò secca la Perla Nera, «anche considerato ciò che è successo ieri.»

«No, naturalmente no.»

«Ho raddoppiato le guardie di servizio a questo piano. Chiamatele qui, se dovete lasciare il principe. La ragazza non servirebbe a niente, se dovessero esserci dei guai. Presumo, infatti, maestra Spina, che voi non siate una spadaccina addestrata.»

Lydea s’inchinò di nuovo. «No, mia signora.»

«Smettetela di saltellare così quando vi parlo. Guardatemi.»

Lydea rialzò gli occhi, con riluttanza. Quelli neri e freddi dell’altra erano cambiati, notò, nel breve tempo trascorso dalla morte di Royce. Sembravano gli occhi di un predatore, pericolosamente feroci. Quella donna aveva sentito l’odore del sangue. Ora non si sarebbe limitata a scortare la concubina del defunto principe all’uscita; l’avrebbe semplicemente fatta gettare dalla finestra più vicina.

«Tu hai l’aria di non essere una stupida», disse Domina Pearl dopo un silenzio poco rassicurante. «Voglio fidarmi del giudizio di mastro Erl. E può essere un’idea saggia impedire che il principe si attacchi troppo al suo tutore. Tu lo istruirai sotto la supervisione di mastro Erl. Fuori dall’orario di lavoro non dovrai vederlo, né qui né altrove. Fuori da questa stanza, non dovrai esistere per lui.»

La donna le voltò le spalle e uscì. Lydea s’inchinò ancora. Kyel, libero dal peso della mano sulla sua spalla, andò al tavolo dove lo attendevano i libri, il calamaio e i fogli; sedette e guardò il suo riflesso nel piano di legno lucido.

Lydea si raddrizzò lentamente. Gettò uno sguardo incerto a Camas Erl. L’uomo inarcò un sopracciglio bianco in direzione del principe, e se ne andò a un tavolo lontano, così carico di pigne di libri e rotoli di pergamene che dietro di essi lui scomparve.

Lydea accostò una sedia a quella di Kyel. Il bambino non la guardò, anche se sbatté le palpebre quando si accorse con la coda dell’occhio che lei gli si sedeva accanto.

«Mio signore», disse dolcemente la ragazza, «vuoi mostrarmi quali lettere hai già imparato a scrivere?»

Lui prelevò un foglio bianco dalla pila, raccolse la penna d’oca e controllò che il gambo fosse appuntito. Lei gli aprì il calamaio. Lui intinse la punta e disegnò un uovo fornito di coda. Poi un altro uovo alla base di un’asta.

«Vuoi che ti mostri come si scrive il tuo nome, mio signore?»

Lui non rispose; si limitò ad aspettare che lei allineasse le lettere sul foglio. Lydea aveva l’impressione di avere sulla faccia una maschera fredda e indifferente, ma il suo cuore era un groviglio di emozioni, per il pallore del volto di lui, per il suo silenzio, ma anche perché l’incantesimo non stava funzionando come previsto. Il bambino non sentiva niente di familiare, dietro la sua voce calma e controllata.

Lei gli restava sconosciuta anche a così breve distanza.

Come posso raggiungerti? pensò la donna, disperata, mentre lui ricopiava doverosamente il suo nome. Come posso dirti chi sono? Come posso farmi vedere?

Parlami, disse il Re dei Ratti, mentre il principe di Ombria giaceva morente, e quelli che amavano il bambino avevano cominciato a sparire. Il Papero mormorò, con la gola stretta a quel ricordo: «Vuoi che ti racconti una favola?»

La mano del bambino si fermò. La penna rimase al centro della Y, immobile come se lui fosse sotto incantesimo. Sta aspettando, pensò lei. Aspettando. Se si fosse voltato a guardarla, la donna che lui aspettava sarebbe scomparsa, per lasciare al suo posto solo quell’estranea.

«Vuoi che ti racconti la favola del ventaglio?»

Lui aspettò ancora, con gli occhi sulla carta, mentre l’inchiostro si allargava in una macchia nera sul suo nome.

«Questa è Ombria, mio signore», disse lei. «La più antica città del mondo.»

Le labbra di lui si aprirono, dando forma in silenzio a una parola.

Infine lei udì la sua voce, debole, esitante, che raccoglieva lo spunto. «La più ricca città del mondo.»

«La più potente città del mondo.»

«Queste sono le navi», sussurrò lui. «Le navi di Ombria.»

«Questo è il grande e indaffarato porto di Ombria.»

Lui si stava voltando, con gli occhi spalancati, offuscati. «Questo è il palazzo dei governanti di Ombria… questo è il più grande…»

«Questa è l’ombra di Ombria.»

Lui la guardò. Lei sorrise, con labbra tremanti, e due lacrime brillarono negli occhi del bambino e caddero sul foglio come pioggia. Si piegò verso di lei, appoggiò la fronte sulla sua, e lei gli prese il viso tra le mani.

«Io sono il tuo segreto», sussurrò Lydea. «La tua segreta maestra Spina. Ricordi quando giocavamo con i pupazzi?» Il bambino annuì, contro di lei. Lo sentì tremare. «Io ero il Papero e tu eri il Falco.»

«E Re dei Ratti.»

«Sì. Solo che ora sono la maestra Spina. Tu mi vedrai soltanto qui, e non dovrai mai dire il mio nome fuori da questa stanza. Io t’insegnerò a leggere e scrivere.»

«Lei ti ha mandata via», sussurrò lui, con voce sottile come il fruscio della penna sulla carta.

«Sono tornata.»

«Lei ti troverà ancora.»

«Non saprà chi sono io. Perciò tu non dovrai dirglielo. Pronuncia il mio nome.» Lui glielo soffiò contro una guancia. «No, mio signore. Quello è il mio nome nell’altra parte della storia. Qui siamo nella città-ombra, e io sono la maestra Spina.»

Lui si scostò un poco. «Allora io chi sono?»

Lei gli accarezzò il viso, gli scostò una ciocca di capelli dagli occhi. «Nella città-ombra, tu sei il mio cuore.»

Fecero ben poco esercizio nell’ora che Camas Erl concesse per la calligrafia. Ma lui sembrò non farci caso. Si è drogato col passato, pensò Lydea, e quegli spettri sono ancora nei suoi occhi. Esaminò gli scarabocchi di Kyel senza vederli e mormorò: «Bene, bene». Poi, nelle ore che Kyel trascorse scrivendo numeri e lottando con la grammatica di un’antica lingua, i suoi occhi tornarono a velarsi. Col righello in mano, illustrandogli le opere e la vita degli antenati di Casa Greve, Camas Erl era appassionato e preso dal suo lavoro, ma frustrato dall’indifferenza dell’allievo.

Quando Domina Pearl venne a portarlo via, entrambi avevano di nuovo la stessa espressione con cui li aveva lasciati. Alla maestra Spina, seduta in un angolo con le mani in grembo, la donna non dedicò neppure uno sguardo.

«Mi domando», disse Camas Erl a Lydea non appena furono soli, «se voi sareste disposta a far una cosa per me. Domina Pearl ha detto che fuori da questa stanza voi non esistete, cosa che rivela un’imprudente mancanza d’immaginazione da parte sua. Quelli che crediamo di poter trascurare sono quelli che più ci sorprendono con le loro azioni. Voi avete una stanza; ora andrete là, e poi cosa farete?»