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«In quale parte di Ombria ci sono tutti questi spettri?» domandò lei, perplessa. Poi si diede la risposta da sola, col fiato mozzo. «Nella sottocittà.»

«Sì.»

«Il Nobile Erl è andato laggiù? Con la maga?»

«All’incirca. Ma possiamo considerarlo perduto; non fa che chiacchierare con gli spettri di cose senza senso. Tu l’hai conosciuto. Hai visto che tipo è. Sembrava così prudente e ragionevole… ma mi ero sbagliato.» Si alzò di scatto, e lei vide un lampo di rabbia nei suoi occhi. «Mi ha mentito, ed era pronto a tradire anche Kyel. Questo non posso perdonarglielo. Aveva il vestito sporco e stracciato, i capelli appiccicati al viso, e l’aria di non aver mangiato più di quello che mangiano gli spettri. Domina Pearl non è riuscita a capire in che punto della sottocittà fosse. Non è in grado di dire se Faey abbia qualcosa a che fare con gli spettri che stanno con Camas. Se lui avesse saputo della loro esistenza, sarebbe andato a cercarli già da un pezzo e per conto suo; nessuno avrebbe potuto trattenerlo. Lei ha cercato di richiamarlo qui.»

«E lui non ha voluto venire?»

«Mi è sembrato che non l’abbia neanche sentita.» Ducon fece qualche passo avanti e indietro, poi si voltò verso Lydea. «Adesso lei vuole che io vada laggiù e lo porti fuori. Con l’aiuto di Faey, dice lei, se ne avrò bisogno. Mi ha assicurato che la maga l’ha in simpatia e fa sempre quello che lei chiede.»

Lydea ripensò a quando Faey camminava sulla riva del fiume con Ducon su una spalla, e alla fredda rabbia con cui si era voltata nel sentirsi paragonare a Domina Pearl. «È ridicolo.»

«È quello che lei pensa. Sono venuto a dirtelo adesso, perché tu sappia dove sarò domani.»

Una morsa di paura strinse la gola di Lydea. «Mi lascerai sola…»

«Farai lezione a Kyel.»

«Sono sorvegliata da una donna capace di farmi tagliare la lingua per una sciocchezza. Se si accorge che so a malapena contare sulle dita…»

Lui tornò a sedersi sul letto e le scostò una ciocca di capelli dal volto. «Anche in queste condizioni riesci a sembrare una calma e dignitosa istitutrice, maestra Spina. Domina Pearl ha troppe cose a cui pensare per ricordarsi che tu esisti.»

«Me lo auguro», mormorò lei. Poi, per qualche motivo, la riservata maestra Spina si trovò a stringergli un polso. «Ma, Ducon, il Nobile Erl sa chi sono io! Me lo ha detto! Se lo riferisse a lei…»

«No, non lo farà», rispose subito Ducon. «Lo sapeva fin dall’inizio, e non le ha detto niente. Se gliene parlasse ora, resterebbe preso nella rete delle sue stesse bugie. Glielo ricorderò, non appena lo trovo. Tornerò il più presto possibile; non oso lasciare solo Kyel troppo a lungo.»

«Sii prudente. Non perderti insieme al Nobile Erl.»

«Non è questo che intendo fare.»

Qualcosa nella voce di lui la fece irrigidire. «Che vuoi dire?»

«C’è una domanda che devo porgli. Voglio sapere cosa desidera tanto intensamente che per averlo distruggerebbe la Casa dei Greve e la città che ama.»

Ducon si alzò. Per un istante indugiò con una mano accanto a una guancia di lei, poi si voltò senza toccarla e uscì.

23

In trappola

Dopo aver oltrepassato i cancelli del palazzo insieme ai carri del latte e della verdura provenienti dal mercato, nella luce argentea dell’alba, Mag andò nelle cucine con due cestelli di granchi tra le braccia, e li lasciò nel primo posto adatto che vide. Poi, nel proseguire, raccolse un secchio e uno straccio, e uscì da una porta interna. Per una volta si era vestita in modo decente, con un abito scuro e senza fronzoli.

Nel corridoio sostenne senza batter ciglio gli sguardi inespressivi delle guardie che Domina Pearl aveva disposto dappertutto, mute e silenziose come pietre miliari. Nessuna di loro sprecò una parola per chiedere a quella serva dall’aria pigra e stanca dove stesse andando a far pulizia. Lei scese la scala che portava nel seminterrato e, quando fu nei quartieri non sorvegliati della servitù, sentì che avrebbe potuto perfino camminare al fianco di Ducon senza che lui si voltasse a guardarla.

Quel pensiero aveva appena attraversato la mente di Mag, che Ducon sbucò in tutta fretta da dietro un angolo e la urtò, facendole cadere il secchio di mano. Il giovanotto fu svelto a prenderla per un braccio perché non perdesse l’equilibrio, e subito si chinò a spazzolarsi il fondo dei calzoni, senza dire una parola. Lei rimase a guardare sbalordita i suoi capelli bianchi, mentre il secchio rotolava sul pavimento fino a fermarsi contro la base del muro.

Dopo un poco, Ducon si raddrizzò e lasciò andare il braccio della ragazza. Forse il silenzio di lei gli sembrò la timidezza di una serva, o la paura di essere punita per avergli impolverato i calzoni, perché le diede appena uno sguardo; poi si chinò distrattamente a raccogliere il secchio e glielo restituì, già pensando ai fatti suoi. Stava per proseguire, quando il ricordo di qualcosa nell’aspetto di lei lo fece fermare. Fu allora che la guardò con un po’ d’attenzione.

Ora il giovane non aveva più tanta fretta. La prese di nuovo per il braccio e la portò un paio di passi più vicino a una delle poche candele del seminterrato, per esaminarla meglio. «I capelli», mormorò infine. «Un mucchio di paglia pieno di spilloni. Occhi del colore delle nocciole…» La sua voce si spense. All’improvviso parve stupito, come se rammentasse di aver già visto il suo viso in un sogno, o in una luce diversa. Lei ebbe la stessa sensazione. Era stato proprio quel genere di ricordo a portarla lì.

«Sei Mag?» le chiese. Lei annuì.

«Perché ho l’impressione di conoscerti», si domandò Ducon, «quando non ti ho mai incontrata?»

«Non lo so.» Lei era rigida sotto il suo sguardo, ancora agitata dall’essere stata sorpresa lì e in quel modo. Oltre le candele più vicine, il corridoio era immerso nell’ombra e, a parte le loro voci soffocate, molto silenzioso. «Prova a dirmelo tu.»

«Stavi cercando me?»

«Sì.»

«Faey sa che sei qui?»

«No.»

Lui si guardò attorno, improvvisamente preoccupato che qualcuno potesse vederla. «Questo è l’ultimo posto dove dovresti essere.»

«Lo so.» Una mano di lei si chiuse sul medaglione, nascosto sotto la lana del vestito. «Ma nessuno a parte te potrebbe svelarmi il mistero del carboncino.»

Lui s’infilò una mano in tasca, come per rassicurarsi con un contatto familiare. «È stata Faey a farlo», le ricordò. «Forse dovresti domandare a lei.»

«Non parlavo del tuo carboncino. In ogni modo Faey non sa tutto. Lei dice che tu vedi più di quello che vedono gli occhi umani, ma non capisce perché. O forse non ricorda il perché. Credo che sia vecchia quanto Ombria.»

Lui taceva, scrutandola con i suoi occhi non umani. «Può darsi che sia perché tu hai vissuto nel sottosuolo e con la sua magia per tutta la vita», commentò, oscuramente.

«Cosa?»

«Anche in te c’è qualcosa di non umano.» D’impulso Ducon tolse di tasca il carboncino e lo considerò, con aria pensosa. Alla luce delle candele era pervaso di vaghi colori. «Mi piacerebbe avere il tempo di farti il ritratto. Forse, così, troverei la risposta a certe domande.»

«Me l’hai già fatto», disse lei, «ma non con quello.»

Il suo sguardo d’argento la scrutò ancora, sorpreso. «Tu credi? No, ti sbagli. Mi ricorderei di te.»

«Mi hai fatto uno schizzo, in una taverna, il giorno in cui Royce Greve fu sepolto. Avevo una spessa veletta nera che mi nascondeva il volto.»

«Eri tu?» Ducon la guardò con nuovo interesse. «La misteriosa, elegante donna in nero?»

«Ero io. Tu avevi attorno dei giovani nobili che stavano cercando di persuaderti quanto ti sarebbe convenuto uccidere Domina Pearl e Kyel, per salire sul trono.»