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Gram Reed, che stava facendo vento a Dama Barrow con la sua parrucca, imprecò seccamente e gettò di nuovo il peloso accessorio nella pozzanghera. Poi le donne sciamate fuori dalla sartoria corsero ad aiutare la dama, e Gram corse nella taverna all’inseguirnento della sua vacca.

Mag si fermò in fondo allo scarico e restò seduta lì, sbattendo le palpebre.

Qualcosa, oltre al fatto di essere umana, le stava accadendo. Tutto sembrava sussurrarle dei segreti: le pietre dell’acciottolato, la fogna gorgogliante, i battiti del suo cuore, i sottili muri della città attraverso cui voci e sogni filtravano come il sangue o la luce. Lei voleva toccare tutto, sentire il ruvido contatto del granito, la scivolosità satinata dell’acqua, il groviglio di capelli umani e setole di cavallo nella parrucca di Dama Barrow. Volle toccare le borse violacee sotto gli occhi chiusi di Dama Barrow, e sentire la vita che vi pulsava dentro. Poteva udire tutto, o così sembrava: Gram Reed che discuteva col gestore della taverna, un piccione che si frugava tra le piume in cerca di una pulce, mormorii d’amore attraverso il muro alle sue spalle, dei passi in una stanza silenziosa, una goccia d’acqua che scorreva in una tubatura, le indignate lamentele di Amalee sulla maleducazione delle vacche (in mezzo a un coro di chioccolii gallinacei e gemiti sconvolti) e i commenti ridanciani dei ragazzi di strada che stazionavano davanti alla taverna.

«… e poi la ragazza di Faey se l’è squagliata giù per uno scarico, muovendosi in fretta come un ragno che salta. Un momento prima era lì, con la mucca che le stava arrivando addosso, e un momento dopo era sparita, e la mucca si è infilata nella taverna trascinandosi dietro tutta quella stoffa. E il vecchio Bailey Nasoabecco non ha neanche tirato fuori il naso dal bicchiere: non appena ha visto quello che aspettava di vedere dal giorno della sua nascita, ha allungato una mano, togliendo via quelle mutande dal corno della vacca e se l’è infilate su per una manica…»

La ragazza di Faey! All’improvviso la strada fu troppo rumorosa. Cosa le stava succedendo? E se lei non era opera di Faey, allora di chi? Sentendosi male e a disagio si alzò in ginocchio, percorse carponi un breve tratto e uscì nel vicolo. Lì scivolò attraverso la finestra in una stanzetta, e poi in una cantina di cui nessuno ricordava più l’esistenza. Il piccolo locale era diventato un pozzo, perché qualche decennio addietro il pavimento era crollato nelle profondità della terra. Stordita, mentre le voci delle pietre e dei fantasmi mormoravano intorno a lei, s’incamminò lungo il silenzioso fiume sotterraneo dove i riflessi d’invisibili lampade lungo la riva luccicavano sull’acqua scura. Quando attraversò un ponte, attraversò anche il tempo. Le lampade divennero reali e le illuminarono la strada fino alla casa di Faey, sulla sponda del fiume. La porta si aprì. La padrona di casa, a malapena visibile e vestita in una foggia arcaica, la fece entrare. L’unico rumore che lei udì nella ricca e silenziosa dimora fu lo sbuffare irritato di Faey. Poi vacillò su per le scale, si gettò sul letto e dormì.

Più tardi, Faey, a cui sfuggivano poche cose, la vide barcollare fuori dalla sua stanza e seguire un percorso tortuoso ed errabondo fino al cesso. Era ancora lì quando Mag venne fuori. Lei si sentiva ancora stordita per i rumori caotici della città, e non vide Faey alzare la mano né arrivare il colpo. Vacillò, colta di sorpresa, cadde a sedere contro il muro e rimase lì come una bambola di stracci, con gli occhi vacui e spalancati.

Faey, pensando al lavoro che avrebbe dovuto rifare daccapo e senza l’aiuto della sua figlia di cera, la guardò tra impietosita ed esasperata. «Quello che ti sta succedendo durerà tre giorni», disse.

Ma certi effetti sarebbero durati anni.

Mag non disse mai a Faey che sapeva di essere diversa da com’era stata fatta. Essendo gli umani ciò che erano — rissosi, confusionari, crudeli, viziosi e stupidi — lei decise di restare cera. Se non avesse detto una parola, rifletté, nessuno ne avrebbe saputo niente. Dire «umana» l’avrebbe resa tale. A fare il suo corpo era stato forse qualcun altro, ma Faey aveva fatto la sua mente, e lei non aveva il minimo desiderio di cambiare la piega che essa aveva preso. Faey, che a suo modo era efficiente, decise di aumentare i modi in cui Mag poteva esserle utile dandole una maggior comprensione di ciò che vedeva in Ombria. Così la mandò da certi suoi affezionati clienti del mondo superiore, per farle avere un’educazione.

Mag imparò a leggere in una stanza sul retro di un elegante bordello, seguendo le parole sulla pagina con un dito ingioiellato e profumato. Imparò le lingue da un contrabbandiere in pensione, che ne parlava bene tre, e sette abbastanza da farsi capire, e aveva un pappagallo capace di dire parole sorprendenti, di cui l’uomo le spiegava il significato solo quando aveva in corpo qualche bicchierino di vecchio sherry. Creò fuochi stregati e puzze e gorgoglii sotterranei nelle stanze piene di libri di un birraio il quale, la sera, indossava una lunga toga con un’espressione solenne, e parlava della trasmutazione e del mondo fisico e spirituale. Mag, la cui idea del mondo spirituale era ciò che usciva dai fornelli di Faey, prestava scarsa attenzione a quella nebulosa filosofia attinta dalle botti di birra. E neppure fece caso, per anni, agli sguardi bovini del figlio minore del birraio. Ma amava i fuochi colorati, le essenze, i marchingegni, le occasionali esplosioni. Apprese un po’ d’aritmetica aiutando un fornaio con le sue ricette e la moglie di lui col libro dei conti.

La storia di Ombria, le complesse e intricate manovre delle famiglie che la governavano, e le ragnatele tessute dai ragni che vivevano nelle sue strade, erano cose che lei imparava respirando quell’aria o ascoltandone le risonanze. I fatti più diversi la trovavano e le si appiccicavano addosso; lei districava con mani esperte il mondo che aveva attorno, perché l’ignoranza era pericolosa, e il cuore che aveva mangiato era diventato la sua difesa.

Trascorsero sette anni prima che le accadesse d’incontrare la donna a cui avrebbe dovuto dare quel cuore. Faey aveva provveduto di persona a portare a palazzo il secondo da lei fatto, perché la sua piccola assistente era ancora confusa dalle impressioni sensoriali. Sette anni dopo, dall’interno della cancellata giunse un’altra richiesta. Per quale servizio, Faey non volle dirlo, ma Mag, sbirciandola mentre leggeva il biglietto che l’uomo senza lingua le aveva portato, la vide stringere le labbra.

«Quella donna…» Faey si voltò e prese a frugare tra scatole, anforette, pipistrelli secchi e barattoli d’insetti tritati. «Vecchia tarantola, avrebbe dovuto morire un secolo fa. È incredibile che le sue ossa non cadano a pezzi quando si muove.»

«Cosa vuole?» domandò Mag, che dalla descrizione aveva dedotto il nome.

«Non preoccuparti di quello che vuole, solo stavolta non inghiottirlo. Vieni qui e prendi questo.»

Mag si alzò dalla sedia dorata su cui sedeva. A quattordici anni era alta e snella, pallida come la cera, con disordinati capelli simili a paglia dorata e strani occhi obliqui il cui colore era quello del caffè con molta panna dentro. Indossava tutto ciò che trovava nelle vecchie cassapanche e negli armadi sfasciati delle case in rovina. Quel giorno si trattava di seta nera, perle nere e pizzo bianco, un insieme che le dava un’aria da studentessa tranquilla, ma stonava con la massa disordinata dei capelli.

Faey, che era nata a Ombria prima che la città avesse un passato, era sprofondata lentamente nel suolo insieme a quei posti. Poiché non ricordava più la sua faccia di un tempo, cambiava faccia come cambiava abito. Mag era abituata ad alzarsi dal letto sferzata dall’espressiva, rauca, imperiosa voce della sua padrona, capace di passare da un misterioso accento straniero all’altro.