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Ma… Uomo avvisato, mezzo salvato, pensò Mag. E lei era stata avvisata tre volte, da Faey, da Ducon e da Lydea. Così, nonostante i suoi istinti, inquieti, rimase dov’era. Ispirata dal pensiero del carboncino, rovistò tra i libri ammucchiati ai piedi del letto di Lydea, non alla ricerca d’interessanti fatti storici bensì di una pagina bianca. Ne trovò una in fondo a un libro, poi si tirò fuori dalla scollatura il medaglione. Far uscire il cilindretto di carbone dal suo scomparto fu facile; il piccolo oggetto le cadde in mano non appena rovesciò il medaglione. Lei se lo rigirò tra le dita, con attenzione. Era lungo quanto una falange del suo pollice e non più spesso di un ferro da calza. A differenza di quello di Ducon, non emanava bagliori colorati. Ma l’attendeva una sorpresa: le prime linee che tracciò sembrarono prodotte non dalla sua mente, ma da una forza sconosciuta che piegava i muscoli del suo braccio.

Si fermò e studiò quei pochi segni. Inesperta com’era, avrebbe potuto disegnare un volto di semplicità puerile: un ovale, due occhi tondeggianti, la curva di una bocca sorridente. Ma ciò che il carboncino l’aveva costretta a fare non poteva essere scambiato per un volto umano neppure con uno sforzo d’immaginazione. Sembrava piuttosto una specie di tromba d’aria. Lei esitò. Non voleva sprecare la magia consumando il carboncino su cose non essenziali, e non prima che Ducon ritornasse. Ma la forza che le aveva mosso la mano sembrava molto sicura di sé. Incuriosita, lasciò che il carboncino corresse a suo piacere sulla carta.

Dapprima non prestò attenzione ai rumori che si udivano all’esterno. Per quanto ne sapeva lei, erano parte della vita quotidiana del palazzo. Ciò che il carboncino stava disegnando sembrava un guazzabuglio irriconoscibile, ma la affascinava, perché ogni tanto vedeva apparire qualcosa di chiaro: un dito ornato da un anello, un orecchio. Era come se una figura umana stesse cercando di emergere da quel rutilante caos. Fu solo quando i rumori furono abbastanza vicini da suddividersi in suoni separati — voci secche, un pesante scalpiccio, colpi battuti alla porta — che capì di essere nei guai.

Il tonfo della porta di fronte a quella di Lydea che veniva aperta la fece alzare di scatto. Il carboncino e il foglio le caddero al suolo. Mag si guardò attorno disperatamente, e vide soltanto una possibilità: le coltri ammucchiate sul letto ancora sfatto. Aveva appena afferrato il lenzuolo e la coperta tra le braccia, quando la porta della stanza di Lydea fu spalancata.

La Perla Nera la guardò. Lei si affrettò a inchinarsi, e fece udire l’ansito intimorito che ci si poteva aspettare da una serva. Ma quei vecchi occhi astuti non si lasciarono imbrogliare. Essi riconobbero, a sette anni di distanza, la giovane assistente della maga che aveva inghiottito un cuore.

«Tu!» sbottò, aspramente. Entrò nella stanza, mentre le guardie si affollavano sulla soglia; non c’era via di fuga. Il medaglione penzolava aperto dal collo di Mag; lo strano disegno era atterrato ai suoi piedi; il carboncino, ancora intero e all’apparenza non usato, giaceva sul pavimento accanto a esso. Il pollice e l’indice di Mag erano sporchi di nero.

A occhi bassi sentì il volto di Domina Pearl accostarsi al suo; nell’aria c’era un odore stantio, muschioso. Una mano della donna le s’infilò tra i capelli, ruvida come un artiglio, e le fece alzare la testa. «Ti avevo avvertito di non spiarmi. Avresti dovuto ascoltare.»

La donna si punse un dito con uno spillone e imprecò. Mag le guardò la mano, incuriosita. Ciò che vide uscire dalla piccola ferita della pelle incartapecorita era più giallo che rosso. Si accorse che l’altra mancava di un pollice. Il suo volto irrigidito dalla rabbia era antico e ricordava quello che Faey aveva talvolta al mattino, appena sveglia: non finito, con qualche osso o una narice fuori posto. La Perla Nera aveva perduto un sopracciglio. E anche un orecchio, notò Mag, stupita. Poi si sentì defluire il sangue dal viso.

Guardò il disegno. La Perla Nera fece lo stesso, alla ricerca del suo orecchio mancante. D’un tratto strinse i denti producendo uno strano rumore, come il cardine di una porta arrugginito, e abbatté il tacco di una scarpa sul carboncino, continuando a pestarlo finché non ne rimase che una chiazza di polvere sui mattoni. Quindi si chinò a raccogliere il foglio, con attenzione, come se temesse che i suoi pezzi mancanti potessero caderne fuori. Mag si sentì pungere gli occhi e li chiuse subito. Pochi momenti ancora e forse qualcosa di vitale sarebbe stato risucchiato via da Domina Pearl e dentro il disegno. Se soltanto lei avesse cominciato a disegnare prima, o se avesse ascoltato i rumori esterni e nascosto il…

La catena del medaglione le morse il collo e fu strappata via. La Perla Nera la spinse sgarbatamente verso la porta. «Toglietele quegli spilloni dai capelli», disse alle guardie. Gli uomini la afferrarono ed eseguirono l’ordine con rude efficienza, finché i capelli le caddero su viso. Mag, con gli occhi pieni di lacrime, sbatté le palpebre per schiarirseli, e guardò le spille e gli spilloni intorno ai suoi piedi. Soltanto essi sarebbero rimasti lì ad aspettare l’arrivo di Ducon.

«E così, la bambola di cera ha imparato a piangere lacrime umane», commentò la Perla Nera. La tirò per i capelli, costringendola a guardarla negli occhi. «È stata la maga a mandarti qui, con quel carboncino? Lo ha fatto lei? Sta complottando contro di me?»

«No…» Mag ansimò, mentre l’artiglio tra i capelli la strattonava ancora.

«La tua padrona sta cominciando a darmi fastidio. Ha intrappolato Camas Erl nelle rovine della storia; ti manda a becchettarmi come un avvoltoio. Ora scopriremo con più precisione quello che tu vali per Faey. Se le importa qualcosa di te, verrà a cercarti. Allora vi avrò in mano entrambe, intrappolate in un posto fuori dal tempo, dove la storia non c’è e gli unici fantasmi sono i miei. Tu, e tu», disse a due guardie, «appostatevi qui, e portate da me chiunque entri da quella porta. Voialtri, prendete la ragazza e seguitemi.»

Le guardie circondarono Mag e la presero per le braccia e per i capelli. La Perla Nera aprì una porticina mimetizzata e li precedette nei passaggi segreti del palazzo.

24

Perduto e ritrovato

Quando era caduto nel sottomondo, Ducon aveva la mente ottenebrata dal veleno, così ricordava soltanto la porta da cui ne era uscito. L’insegna sopra quella porta raffigurava due eleganti mani guantate, che si separavano come per rivelare chissà quale meraviglia; tra di esse fluttuavano bollicine multicolori. Il piccolo negozio di guantaio era schiacciato tra due grossi magazzini, e sorgeva in un vicolo pieno di pozze d’acqua e di sangue proveniente dal macello che ne occupava l’altro lato, di fronte al quale erano posteggiati carri di pelli puzzolenti destinate alla conceria. Che il negozio avesse mai venduto un paio di guanti era cosa dubbia, almeno quanto lo era l’eventualità che qualcuno in vena di acquisti eleganti osasse avventurarsi in quella lurida stradicciola.

Nell’interno del negozio non c’era niente, a parte due muri spogli e una scala di mattoni che partiva dalla porta per scendere direttamente al fiume. Ducon vide che i lampioni sulle rive del corso d’acqua erano ancora accesi, a quell’ora del mattino. Un suono proveniente dal basso lo fece rallentare, finché il ricordo dei suoi giorni di convalescenza in casa della maga gli permise d’identificarlo: il ritmico susseguirsi di sospiri e poderosi grugniti che era il russare di Faey.

Si trovava a metà della scala quando il russare cessò.

La maga lo stava aspettando sul fondo. Era spettinata, ancora insonnolita, con un volto non troppo visibile nella fioca luce dei lampioni, e forse non si trovava neppure del tutto lì. Sbadiglio a lungo e rumorosamente, aggiustandosi con qualche gesto distratto la massa scarmigliata dei capelli. Quel mattino li aveva bianchi. Uno dei suoi occhi era turchese, l’altro rosso smeraldo, come se prima di metterli avesse dovuto cercarli al buio in una scatola piena di ricambi. Dietro di lei, nella penombra, Ducon poteva vedere l’inquieta corrente di fiochi bagliori dei suoi poteri, che non invecchiavano e non dormivano mai.