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Faey borbottò qualcosa, tirò fuori dal nulla uno specchio e con attenzione ristrutturò la curva di un sopracciglio devastato. Poi fece sparire lo specchio.

«Ducon, che stai facendo qui, a quest’ora del mattino?» domandò.

«Sono venuto per Camas Erl.»

Lei sbuffò. «Non vale la pena di salvarlo. Lo lascerei perdere, se fossi te.»

«Domina Pearl mi ha mandato a riportarlo indietro», la informò lui, e vide una luce scintillare cupa sia negli occhi della maga che nel suo fluttuante manto di magia. Faey sedette su uno scalino e gli accennò di mettersi accanto a lei.

«Tiene tanto a quell’uomo?» si stupì. «L’ha tradita in minor tempo di quello che ci avrebbe messo a decidere se lavarsi i denti. È un vecchio idiota.»

«Forse, ma lei lo rivuole. E tu cosa farai? Mi fermerai?»

«No. Prenditelo pure. Io lo trovo irritante. Ma non ti sarà facile staccarlo da quegli spettri. È come perduto nella storia, e borbotta di non so quali trasformazioni. Dubito che ti guarderà due volte, salvo che tu sia morto.»

«Non potresti aiutarmi? Mi è stato ordinato di chiedertelo. Domina Pearl dice che non le hai mai rifiutato niente.»

Lei distolse lo sguardo. Si appoggiò all’indietro sugli scalini guardando pigramente qualcosa, forse i riflessi colorati della sua magia nel sottomondo. «Già, non le ho mai rifiutato niente», mormorò. «Ma non ti aiuterò. Quei due non mi piacciono, e non m’importa una scoreggia di gatto se Camas Erl e la Perla Nera si riuniranno o meno, nel mondo di sopra.» Alzò una mano per far girare la testa a Ducon e gli guardò l’escoriazione sulla tempia. I suoi occhi diventarono all’improvviso neri e senza pupille, vuoti come quelli delle statue antiche. «Anche tu menti», disse. «Anche tu.»

«Devo farlo, in quel palazzo.» Adesso le iridate correnti di magia emanavano dagli occhi di lei. Ducon non poté distogliere lo sguardo.

«Tu dici una cosa alla Perla Nera, un’altra a Kyel, un’altra all’uomo che per poco non è riuscito a ucciderti. Ci ha provato ancora?»

Lui annuì, ripensando al freddo metallo contro la gola e agli occhi folli della manticora. «Mi ha teso un agguato ed è fuggito in preda al panico. Da allora non l’ho più visto.»

«Ci sono altri.»

«Sì», Ducon udì se stesso dire, sottovoce. «Vogliono che io uccida quella donna e governi Ombria.»

«Lo farai?»

Lui esitò, pensando alla Perla Nera e ai suoi specchi che lo sorvegliavano. La maga sorrise. «Qui non può vederti. Ora sei nei miei specchi, nelle mie illusioni.» Poi aggiunse, come se gli leggesse nella mente: «E così, a questi altri, tu non hai mai detto di sì, e neppure di no».

«L’ho fatto per il bene di Kyel», sussurrò lui. Le sue mani si erano chiuse come per tenere strette tutte le possibilità, tutte quelle che lui gettava in aria e tratteneva dal cadere nel mondo superiore. «Loro non vedono come Kyel possa essere necessario; vogliono liberarsi di lui al più presto. Sono giovani, ambiziosi, disperati…»

«Dunque, tu sostieni il cielo sopra la testa del giovane principe.»

«Ci provo.»

«Ed ecco perché oggi ti trovi quaggiù, alla ricerca del suo tutore senza scrupoli, per conto della perversa reggente.»

«Per ora devo fare ciò che vuole lei», disse Ducon.

«Per il bene di Kyel. E per il bene di chi adesso mi stai imbrogliando?» Lui la guardò, attonito per lo stupore. E gli occhi di lei divennero bruni come noccioline. «Io vedo la mia figlia di cera nella tua mente?»

«Io non ho intenzione di imbrogliarti», protestò lui, sorpreso dalla sua percettività. Concentrato su Camas Erl, aveva dimenticato Mag. Faey lo interrogò inarcando un sopracciglio, e lui ammise: «Avrei lasciato che fosse Mag a dirti che ci eravamo conosciuti. L’ho trovata negli alloggi della servitù. Stava cercando me». A quelle parole, entrambe le sopracciglia s’inarcarono. Ma lei lo lasciò finire. «Voleva che io disegnassi con quel carboncino che ha nel medaglione. Pensava che avrei potuto tirare fuori il volto di sua madre.»

«E l’hai fatto?»

«Non ne avevo il tempo. L’ho lasciata ad aspettarmi nella stanza di Lydea.»

La maga sbuffò rumorosamente. «Le avevo detto di stare fuori da quel palazzo.»

«Le ho raccomandato di non andare in giro.» Ducon guardò Faey e la sondò, cautamente: «Tu sai chi è sua madre?»

«Non ne ho la minima idea», rispose lei. «È una faccenda a cui non mi sono mai interessata molto.» Ma adesso t’interessa, pensò Ducon. Faey aveva corrugato le sopracciglia e studiava qualcosa d’invisibile nell’aria tra di loro. Poi studiò lui. La luce e l’intensità dei suoi poteri avevano una bellezza segreta che lo colpì; di nuovo gli fu impossibile distogliere lo sguardo. «Tu mi vedi», la sentì dire, «in un modo impossibile a qualsiasi altro umano. Salvo Mag. Io le ho nascosto certe cose fin da quand’era piccola, affinché lavorasse per me senza quelle distrazioni. Ma quando la trovai vidi nei suoi occhi il riflesso dei miei poteri. Mag cercherà di fare da sola la magia che ha visto fare a te. La persona che le ha lasciato quel carboncino sapeva che ci sarebbe riuscita.»

«Che stai dicendo?» Ducon si accorse di avere un tono strano, teso. «Che lei e io siamo in qualche modo legati?»

«Tu cosa pensi?»

«Non l’ho mai vista prima di questa mattina. Ma quando l’ho guardata ho sentito che apparteniamo entrambi allo stesso luogo, non so immaginare quale.»

«Forse è vero.»

Faey lo lasciò così bruscamente che fuori dalla sua magica corrente lui vacillò stordito, come un pesce fuori dall’acqua. Gli occhi di lei avevano ora un colore umano. Lo contemplò con distacco, come se esaminasse un punto fuori posto in un vasto e complesso arazzo. «M’interesserà molto vedere cosa verrà fuori da quel carboncino. Però Mag avrebbe dovuto chiedermi di chiamarti qui, invece di avventurarsi nel palazzo e rischiare di finire sotto il naso della Perla Nera. A volte vorrei averla incoraggiata a pensare.» Faey si alzò.

«Aspetta», la pregò lui. «Qual è il luogo al quale lei e io apparteniamo? Dov’è?»

«Come posso saperlo? Forse il carboncino te lo dirà. Domina Pearl ha ragione su una cosa», aggiunse. «Io ti aiuterò, se vuoi. Ma non chiedermi aiuto per Camas Erl. Di lui occupatene tu.» Si alzò e s’incamminò verso casa sua, sbadigliando. «Io me ne torno a letto.»

Ducon seguì la strada illuminata dai lampioni, lungo il fiume. Ogni tanto sulla facciata di una delle grandi case si accendeva la luce in una finestra, come a prendere nota del suo passaggio, per poi spegnersi subito dopo. Il fiume si fece più stretto e rapido, con una superficie pervasa da movimenti come gli occhi dei sognatori. Si alzò il sole. Polverosi e dorati raggi di luce spiovevano dall’alto, filtrando da finestre dimenticate, scarichi fognari, e pavimentazioni sfondate di edifici in rovina. Il fiume scorreva profondo, e nel risalirlo Ducon sentiva di avanzare verso un tempo sempre più lontano nel passato. Le case sulle sue rive erano più piccole, più strette una all’altra; vecchie strade s’intrecciavano in un labirinto impenetrabile. A un certo punto ebbe la sorpresa di sentire l’odore dolce dell’erba appena tagliata; più avanti percepì un profumo di lavanda.

Camminò finché vide quanto sarebbe dovuto andare lontano, per raggiungere l’inizio temporale della sottocittà. Le memorie effimere, frammentate, di mura ombrose e torri, dove il fiume andava a confondersi in un vasto mare nero, sembravano troppo distanti per essere raggiunte se non in sogno. Forse, pensò mentre si chinava sulla riva del fiume per raccogliere una manciata d’acqua, Camas è già arrivato là, oltre il confine della storia.