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In fondo al corridoio qualcosa si mosse. Lydea si fermò di colpo. Poi la maestra Spina, riprendendo il sopravvento, allungò una mano a prendere una candela accesa. Mentre avanzava in quella debole luce intravide una forma indistinguibile. Lei si aspettava le guardie, e faticò a capire cosa fosse. Da una porta che si era aperta sbucò un braccio nelle cui mani c’erano alcuni fogli di carta, poi apparve una piccola testa bruna.

Il suo cuore ebbe un sussulto. Le sfuggì un suono incoerente, mentre, senza esitazioni la figuretta chiuse la porta e le venne incontro.

Lydea si chinò ad abbracciarlo e lui le si aggrappò al collo senza parlare, ansimando qualche lieve gemito. La ragazza lo strinse a sé perdutamente, con gli occhi accecati dalle lacrime. Intorno a loro, oltre i muri, il palazzo mormorava i suoi soliti rumori, ancora non disturbato dalla scomparsa del giovane principe, che doveva esser stato lasciato solo — o così lei suppose — a fare un pisolino.

Tenendolo in braccio, Lydea salì un’altra rampa di scale per allontanarsi dalla camera del bambino, finché aveva la forza di camminare ancora. Poi entrò nella prima stanza che le capitò, un’antica sala da ballo a giudicare dalle sue dimensioni, vuota a parte una dozzina di poltrone che perdevano l’imbottitura da molti buchi, dove i topi avevano fatto il nido.

Mise giù Kyel e sedette sul pavimento, per riprendere fiato. Lui le si chinò accanto.

«Lydea», sussurrò. «Lydea.»

La ragazza si asciugò il volto con una manica e lo baciò. Tenendolo tra le braccia era consapevole di quello che sarebbe stato il suo destino se l’avessero sorpresa a fuggire insieme al principe di Ombria, ma sapeva anche che non l’avrebbe lasciato un’istante di più in quel palazzo dove regnava la morte.

«Dove possiamo andare?» domandò lui, facendo eco ai suoi pensieri.

«Be’», sussurrò lei. «Come siamo saliti, possiamo scendere. Andremo nelle cantine del palazzo, e da lì fuggiremo nella sottocittà.»

«Ducon è andato su.»

«Cosa?»

«Quando mi ha preso con sé, dopo la morte di mio padre. Lui andava sempre su.»

«Dunque conosce questo posto», esclamò lei, con ravvivata speranza. «Forse verrà qui a cercarci, e ci aiuterà.»

«Lui cercherà di sopra» insisté Kyel, alzando lo sguardo al soffitto decorato con personaggi in abiti molto elaborati che danzavano sulle nuvole.

«Allora vuol dire che andremo lassù», annuì Lydea, sfiorandogli i capelli con un bacio. «E se lui non ci troverà, torneremo giù.»

Lui si fece indietro per guardarla in faccia. «Dov’è la maestra Spina?»

«È ancora qui. Si nasconde da tutti, fuorché da te.»

Lui appoggiò ancora la fronte alla sua. Lydea gli accarezzò i capelli e cercò di riflettere.

26

Il tempo e la mente

Incatenata al muro di una stanza apparentemente priva di porta, Mag guardava quella che sembrava una grossa falena dalle ali dorate sbattere incessantemente sul vetro della giara, sopra uno scaffale. La giara era chiusa con un tappo di sughero incerato; la falena avrebbe dovuto essere morta da un pezzo. Invece continuava a svolazzare avanti e indietro senza fermarsi mai, senza mai rinunciare a illudersi che la libertà fosse alla sua portata, e quella cieca testardaggine era una vista che Mag non poteva sopportare. Ma non poteva neppure evitare di guardarla. C’erano anche altre cose, alcune in ombra e altre luminescenti, che ogni tanto attraevano il suo sguardo, come il mucchio d’ossa in un angolo e le deformi creature fluttuanti in un’altra giara, che sembravano studiarla incuriosite. La stanza, priva di finestre e gravida di odori pesanti, era facilmente identificabile per lei. Si trattava del posto più segreto e meglio sorvegliato di Domina Pearl, il centro della sua ragnatela. Che la reggente le avesse permesso di vederla, era un fatto che Mag trovava molto preoccupante.

Qualche ora prima, Mag aveva assistito ai tentativi della donna di riattaccarsi addosso le parti del corpo che le erano state rubate dal vorticoso disegno a carboncino, mugolando un interessante miscuglio d’incantesimi e imprecazioni. Il meglio che aveva saputo fare era stato riavere una specie di carota nera per pollice, una foglia accartocciata per orecchio, e un sopracciglio bianco come la neve. Guardandosi allo specchio si era sputata in faccia. La sua saliva, colando sul vetro, lo aveva fuso. Poi si era voltata verso Mag, che sedeva per terra con un braccio che si stava intorpidendo, tenuto sollevato dalla catena fissata al muro.

«In quanto a te», aveva detto aspramente la Perla Nera, mentre lei la guardava con occhi inespressivi, «resterai qui a fare da esca. Io rifiuterò tutte le offerte che la tua padrona mi farà, finché sarà costretta a venire a cercarti. Allora l’avrà a che fare con me. Se invece non le importa di te, e non vorrà venire, allora tu diventerai la mia bambola di cera, nella mente e nel corpo. Ti userò contro di lei come lei ti ha usato contro di me. Questo insegnerà alla maga a non immischiarsi con un mondo cui non appartiene.»

Detto questo, se n’era andata. Mag l’aveva guardata con attenzione, ma era stato come se la Perla Nera fosse filtrata giù tra le tavole sporche del pavimento, o si fosse compressa in un bruscolino volando via attraverso una fessura dal muro. Mag si era alzata per far circolare il sangue nel braccio. Faey l’avrebbe salvata in qualche modo, presto o tardi. Questa la speranza a cui si era aggrappata, cercando di non domandarsi quanto presto? in che modo?

Quello che sembrava essere il letto della Perla Nera la distrasse per qualche momento. Era alla base del muro opposto: un cassone lungo quanto una bara, con un coperchio aperto, tondeggiante. L’esterno sembrava fatto d’ambra e di migliaia d’ali scintillanti di scarafaggi. Nell’interno e lungo il bordo, una strana sostanza aveva assunto la forma del corpo della Perla Nera, completa di ogni particolare del viso e delle impronte digitali sul lato del coperchio. La sostanza appariva porosa, spugnosa, come una crosta di pane color del sangue secco. Era quella strana cosa, intuì Mag, che durante la notte ringiovaniva la Perla Nera e le dava, a giudicare dalle esalazioni, quel particolare odore di biancheria sporca. Al centro del locale campeggiava un caminetto circolare sormontato da una canna fumaria della stessa forma; la grata d’acciaio sopra le braci sorreggeva un pesante calderone annerito.

Mag sedette sul pavimento e tornò a guardare con ipnotica intensità la bella falena dorata che lottava con la sua prigione trasparente. Se fosse riuscita a liberarsi, si disse, avrebbe potuto farlo anche lei; se la falena avesse trovato la porta invisibile nella giara, anche lei l’avrebbe…

In quel momento la Perla Nera apparve, sbucando dall’aria. Il volto era chiazzato e rigonfio, molto teso; le labbra erano scomparse. Ha l’aria di aver inghiottito un fulmine, pensò Mag, a disagio.

La donna si diresse a quello che sembrava un albero fuso nel ferro, dai cui rami pendevano come frutti dei grossi specchi. Ne girò rapidamente alcuni. Mag intravide immagini dell’interno del palazzo: un’elegante camera in penombra, dove figure nude si muovevano tra spiegazzate lenzuola di seta. La cucina, dove un cuoco mescolava un pentolone fumante e alcune inservienti pelavano e tagliavano vegetali, la biblioteca segreta dove giorni addietro lei era stata intrappolata. Domina Pearl sussurrò qualcosa, e su ogni specchio apparve il volto duro e inespressivo di una guardia.

«Sorvegliate tutti gli ingressi, anche alle cucine, e le scale dello scantinato. Impedite a quella donna di lasciare il palazzo. Quando la troverete, uccidetela, e portate il principe da me.»