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«Io credevo», disse la ragazza, preoccupata, «che fossi tu a fare questo sconquasso, là fuori. Che cos’è?»

«Sta succedendo», rispose oscuramente Faey. «Questo è un buon posto per aspettare che sia finito. È fuori dal tempo, così potrai ricordare meglio, dopo.»

«Aspettare che sia finito cosa? Ricordare cosa? Che cosa sta succedendo, di preciso, là fuori?»

La maga scrollò le spalle, corrugando le sopracciglia. «Non ne sono sicura. Ma sembra che questo succeda tutte le volte che io salgo dal sottomondo.»

Mag la guardò, ammutolita. La stanza segreta ruotava come una stella in un planetario, seguendo il suo immutabile sentiero attraverso la notte.

27

La città-ombra

Ducon dovette lottare per aprirsi la strada nella fessura che era la porta invisibile della Perla Nera. All’interno del palazzo, perfino l’aria negli interstizi tra le assi e le pietre sembrava schiacciata da una forza misteriosa. Respinse con fermezza il timore che le travi crollassero e s’insinuò tra i mattoni mentre lottavano per chiudersi, in quello stretto corridoio temporale che comunicava con la camera segreta della donna.

Abbandonando là tutte le sue cose, lei lo aveva lasciato in una trappola. La porta alla fine di quel corridoio stava diventando sempre più piccola, con strani angoli che si chiudevano su cieche iridi e bordi in fusione. Ducon la raggiunse giusto prima che fosse troppo piccola per consentire il passaggio.

Quando emerse da quella piccola tasca temporale ebbe la sorpresa di sentire che il pavimento tremava sotto i suoi piedi. Dunque, oltre l’attacco della maga, stava accadendo qualcos’altro. L’antico edificio si contorceva e mugolava come un animale che si era svegliato in preda agli incubi. Uscì dall’anticamera nei passaggi segreti dove la Perla Nera aveva costruito la porta e quello che vide lo indusse a fermarsi, deglutendo a vuoto. Da lì era passata la morte. Nel corridoio giaceva suo cugino coperto di sangue. Si vedeva ancora il graffio che la sua spada gli aveva lasciato sul collo. Ducon raccolse l’arma dalle sue dita fredde e tese le orecchie. Ma nei corridoi non si udiva altro che il tintinnio dei prismi di cristallo di un grande candeliere. In fretta corse via, verso il cuore del palazzo.

Non si aspettava che sarebbe stato attaccato dalle guardie della Perla Nera. La prima che si trovò davanti lo aggredì subito, e per poco non riuscì ad affondargli la spada nella spalla. Ducon dovette così constatare che la reggente, non avendo più niente da perdere, aveva ordinato agli uomini che teneva sotto incantesimo di uccidere anche lui. Si difese con la forza della disperazione, ma la sua immagine, trasmessa da quegli occhi privi di mente, attirò altre guardie. Il giovane udì le loro grida in qualche corridoio non molto lontano, e il rumore di passi in corsa sui pavimenti polverosi. Il palazzo si scrollò ancora. I vecchi candelabri appesi ai muri si accesero all’improvviso. Ducon si chinò per evitare un fendente diretto al volto e sentì uno stupefacente odore di viole.

Ma era un sogno, una favola da bambini. La soglia attraversata da Lydea l’aveva portata alla morte; il silenzioso individuo col suo volto, imprevedibilmente uscito dal passato, era solo un fantasma. Lui aveva visto abbastanza spettri in casa della maga da saperne riconoscere un altro. Il soffitto sopra di lui cigolò; una trave che prima aveva ceduto si era raddrizzata tornando integra. Distratto da quella circostanza, Ducon fu costretto a ricordare che lui ne rischiava una molto sgradevole, quando la spada della guardia gli squarciò una manica spillandogli sangue dal braccio. Balzò indietro. La spada lo mancò, mentre il pavimento sussultava ancora, e la guardia scivolò al suolo. Lui ne approfittò per voltarsi, e fuggì.

Prese le scale più vicine e corse al piano di sopra. Da lì proseguì fino alle antiche soffitte dai tetti che lasciavano passare la pioggia e il vento, dove i piccioni avevano fatto il nido tra le travi. Ora non udiva più le guardie correre lungo i corridoi e spalancare a calci porte chiuse da secoli. Ma sapeva che alla fine lo avrebbero raggiunto, come avevano raggiunto Lydea, e anche lui sarebbe stato costretto a saltare nell’ignoto. Poco dopo trovò la porta con un montante danneggiato e l’altro dipinto con i colori dell’arcobaleno. Era ancora lì. La tenebra oltre la soglia appariva assoluta.

«Te l’avevo detto», disse la voce della Perla Nera, dietro di lui. «Lo sapevo, che sarebbe venuto qui.»

Ducon si girò di scatto, dando le spalle al buio, e alzò la spada. La donna si era rivolta a Camas Erl, il quale lo guardava con bruciante curiosità, come se non lo considerasse umano bensì una forza innominabile di cui non si potevano prevedere i movimenti. La Perla Nera, che continuava a perdere pezzi come se avesse messo insieme il suo corpo con dozzine di frammenti di cadavere male incollati, lo fissava con astio.

«Lui ha disegnato questa porta molte volte», continuò la donna. «Qualcosa lo attirava qui. Disegna per noi, Ducon. Disegna una porta per noi, al suolo. Tu hai quel carboncino. Lo porti sempre con te.»

Il grande palazzo tremò. La città visibile oltre i vetri polverosi della finestra si annebbiò, poi tornò di nuovo nitida. Lì, in quell’antica stanza da cui lo sguardo spaziava sul dedalo di stradicciole contorte, e sui moli che marcivano sotto il sole abbagliante in riva al mare, Ducon sentì che il cuore gli cedeva.

«Questo non è un posto per voi», le disse, stancamente. «È qui che Lydea e Kyel sono morti. Credete forse di poter andare là dentro e tornare alla vita?»

«Disegna una porta.»

«La porta c’è già, ed è aperta.»

«Ne sei sicuro?» domandò Camas Erl, scrutandolo. «Tu hai visto posti del genere tutta la vita. Li sai riconoscere. Cosa ti attira fino a essi?» Ducon non rispose, con la spada ancora sollevata come a proteggere l’ingresso di un altro e più tranquillo mondo dove i suoi fantasmi erano andati a vivere. «Sono ombre», proseguì il cortigiano. «Tu disegni ombre. La città-ombra.»

«Sì», rispose Ducon, «ombre. La città ne è piena.»

«Come si arriva là?» Camas fece un passo verso di lui, eccitato. La spada si alzò a fermarlo. Domina Pearl sputò saliva verde e l’arma volò via dalle mani del giovane, mezza fusa, andando a rotolare in fondo alla stanza.

«Forse io sto morendo», lo avvertì, «ma ho ancora i miei poteri. Per te è la fine. Morirai da questa parte della soglia, oppure dall’altra. Puoi scegliere.»

«Può darsi, ma non disegnerò nessuna porta per voi.»

«Sì, lo farai, invece», disse dolcemente Camas. «Perché per tutta la vita hai disegnato porte per trovare questa. E sai che non puoi morire senza sapere se avevi ragione nel sospettare che se quella è la porta, la soglia tra i mondi, tu sei la chiave. Kyel e Lydea sono vivi o morti? Potrebbe esser vera una qualsiasi di queste due cose, là oltre quel buio. Disegna la porta-ombra lì per terra, e scoprilo.»

Ducon sentì che una porta si apriva da qualche parte, dentro i suoi pensieri; attraverso quella soglia vide se stesso. Il palazzo si scosse ancora, facendoli barcollare. Lui se ne accorse come da grande distanza, anche se aveva perso l’equilibrio ed era caduto in ginocchio. Restò in quella posizione, lasciando una ditata di sangue sul pavimento. Non rispose, ma tirò fuori di tasca il carboncino e cominciò a tracciare il contorno di una porta davanti all’altra, dove l’ombra di quel rettangolo sarebbe caduta se il buio avesse potuto gettare un’ombra.

Mentre disegnava ripensò agli strani posti, agli inaspettati vicoli, alle tortuose stradicciole che aveva visitato. I disegni e i vagabondaggi di una vita l’avevano portato a quel momento, inginocchiato lì ai piedi della Perla Nera, per darle l’ultimo disegno che avrebbe mai fatto. Lei e Camas avevano concepito l’idea della porta-ombra; a lui non sarebbe mai venuta in mente. Ma era stato lui, con le sue misteriose compulsioni, col suo occhio per ciò che era oscuro, ambiguo, paradossale nelle loro vite, era stato lui col suo carboncino a condurli a quella conclusione. Forse Lydea era saltata nel vuoto e morta oltre quella porta scura. Ma la Perla Nera voleva un’altra porta: l’ombra di quella porta, aperta alla luce.