Le dita della sua mano destra diventarono nere, spargendo carbone sull’ombra. L’unico punto su cui non lo passò fu dove appoggiava l’altra sua mano, la cui impronta perfetta rimase chiara sul rettangolo nero nel punto dove poteva esserci la serratura. Questo lo fece perché sperava che Domina Pearl gli permettesse di essere lui ad aprire quella porta.
Aveva visto giusto. Non appena la forma sul pavimento fu piena di tenebra e il suo carboncino esitò, non sapendo dove metterne altra, Ducon sentì alla gola la lama della spada che lo costringeva ad alzarsi. La Perla Nera aveva chiamato le sue guardie, ed esse lo circondarono, spiando con i loro folli occhi privi di emozione ogni suo gesto.
«Scegli, nobile Ducon», disse la donna. «La morte immediata qui, oppure la lunga caduta verso l’ignoto… o forse, chissà, la salvezza in una cantina del palazzo, se sarà quello il posto che ti aspetta oltre la soglia.»
Alzandosi, lui si voltò a guardare il buio, per non portare con sé nell’oblio il ricordo del viso di lei. Il pavimento si contorse come se il palazzo volesse strapparsi via dalle fondamenta e allontanarsi dalla città condannata. L’oscillazione gettò di nuovo Ducon in ginocchio sul carbone. La sua mano sinistra cercava soltanto un punto d’appoggio quando lui la protese, disperato, a incontrare la sua ombra chiara su quella porta.
Essa si aprì.
La luce fiottò intorno a lui, abbagliandolo. Sentì Camas gridare di stupore. La Perla Nera sbottò qualcosa. Un insostenibile raggio di fulgore argenteo avvolse Ducon, e sotto la luminosa energia su cui si trovò inginocchiato non c’era niente che lui potesse vedere o capire, a parte il fatto che si trattava dell’opposto dell’ombra.
Poi una mano lo afferrò, tirandolo fuori dalla luce. Sbatté le palpebre per scacciare il bagliore, e vide se stesso.
E non se stesso.
Per la prima volta Ducon poté vedere lo scintillante flusso di potere che seguiva come un mantello l’uomo liberato dal suo carboncino in una taverna di Ombria. Era anche dentro i suoi occhi argentei, e dava loro una sfumatura più scura. Il giovane cercò di parlare ma non poté. L’uomo lo studiava in silenzio. Il tempo e la sofferenza gli avevano scavato rughe intorno alla bocca, lasciandogli ombre di stanchezza nelle orbite. Teneva ancora Ducon per un braccio, e le sue dita lo strinsero un poco, quando disse: «Non somigli per niente a tua madre».
«Somiglio a te», sussurrò lui.
«Puoi vedere come sono.»
«Sì.» Lui smise di deglutire. «Ora ti vedo. Prima non ci riuscivo bene.»
«Tu mi hai disegnato, in città. Ma creato da te, io ero l’ombra di me stesso. Essendo polvere di carbone non potevo parlare. Potevo solo vegliare su di te.»
«Vegliare su di me», annuì Ducon. Si accorse che intorno a loro altre figure, uscite da altri disegni, avevano riempito la stanza e si stavano battendo con le guardie affatturate. La porta-ombra, accesa come un sole, aveva illuminato l’impenetrabile nero dinanzi a essa. Sembrava che ne uscisse un esercito, accompagnato dall’odore della pioggia e dell’erba, e dall’aspro gracchiare dei corvi. Tenendogli una mano su un braccio, suo padre protendeva all’indietro una spada, per guardargli le spalle. Ducon udiva i rumori del combattimento come da lontano; non riusciva a distogliere lo sguardo dal volto del mago.
«Mia madre ti ha ritrovato?» gli domandò. «O tu hai trovato lei?»
«Tua madre passò oltre la soglia per cercarmi. Come te, era stata attirata da questa porta.»
Una mano di Ducon si strinse bruscamente sul polso del padre, mescolandosi con la sua aura. «E sopravvisse?»
«Sopravvisse tanto da concepirti e darti alla luce. Ciò che le accadde dopo, io non l’ho mai saputo. Lei fece ritorno alla soglia, per mostrarti a me. Poi non la rividi più, anche se feci di tutto per ritrovarla… finché sentii che era morta. Sapevo che tu vivevi, nel mondo di lei, ma finché non mi hai disegnato io non avevo mai rivisto il tuo viso.»
«Il giorno che tu apparisti qui, io ti venni dietro. E tu mi guidasti a…» Un’ombra scomparve dai pensieri di Ducon; il baluginante mantello di potere lo illuminò. «Mi guidasti da Faey.»
«È così che si chiama? La maga che abita nel sottosuolo? Noi non l’abbiamo mai saputo.»
«Tu cosa sei, nel tuo mondo?»
«Io governo, nel mondo riflesso. Non vivo nel sottosuolo, e anche se ho poteri magici non sono immortale.» L’uomo lasciò il braccio di Ducon. «Tu sembri aver ereditato il mio potere. Puoi riconoscerlo, ed emerge dai tuoi disegni. Ma tu non sei un mago, vero?»
«No. Sono solo un uomo con un carboncino da disegno.» Ducon sussultò quando dietro di lui cominciò a svolgersi un furioso duello di spade. L’elusivo e scintillante mantello di potere si strinse intorno a loro, offuscando le figure che si battevano e il rumore.
«La porta è aperta per sempre, ora?» domandò, senza sperarci troppo. «Tu puoi restare?»
«Noi siamo venuti perché nella tua disperazione hai trovato il modo di aprire una porta tra i nostri due mondi. Il mondo-ombra è la tua speranza. Quando non sarai più disperato e non avrai bisogno di noi, svaniremo e tu ci dimenticherai. Ogni volta che la maga del sottosuolo è abbastanza disturbata da uscire nel mondo di sopra, travagliato e sconvolto, questo altera l’equilibrio tra la disperazione e la speranza, tra la luce e l’ombra. Così, lei ci trascina nel vostro mondo, per ristabilire l’antico equilibrio tra noi. Ma sei stato tu a cercarci con i tuoi disegni, tu a vedere nell’ombra, tu ad aprire la porta.»
«Camas aveva intuito qualcosa di simile», disse Ducon, con amarezza. «Ti dimenticherò, allora? È successo anche a mia madre? È per questo che non parlava mai di te?»
«Forse», rispose suo padre. «O forse no. Io non l’ho mai dimenticata. Altri figli dei due mondi sono nati prima di te. Essi restano sempre nel loro mondo natale. Ma, come te, sono attratti dal mondo al quale in parte appartengono.»
«Mia madre tornò nel nostro mondo attraverso questa porta?»
«Sì. Era il posto a cui sentiva di appartenere.»
«Il mio giovane cugino…» Ducon aveva un groppo in gola; si sforzò di ignorarlo. «Mio cugino è… o era… il principe di Ombria, e la donna che voleva portarlo in salvo si è gettata con lui oltre quella soglia. Anche loro appartengono a questo mondo. È possibile riportarli qui… vivi?»
Suo padre ci pensò un poco. Il velo di luce che li circondava tornò abbastanza trasparente da consentire a Ducon di vedere che qualcuno si batteva ancora nella soffitta. Due o tre guardie s’intestardivano a ubbidire agli ordini della Perla Nera. Ma lei non si vedeva da nessuna parte. Anche Camas Erl se n’era andato, nei labirinti segreti del palazzo oppure nelle strade di Ombria, dove la sua padrona non avrebbe trovato porte che potessero salvarla, né letti, fuorché quello che sarebbe stato l’ultimo della sua vita.
«Disegnali», suggerì suo padre. Ducon si avvicinò al muro dove si apriva la porta e alzò il carboncino.
Le prime linee che tracciò raffiguravano però un viso che non era quello di Kyel, né di Lydea. Il giovane alzò l’altra mano per cancellarlo, ma quegli occhi sembravano guardarlo per dargli un messaggio, e dopo una pausa, stupito, ricominciò a disegnare. Quando il carboncino diede forma a uno spillone infilato tra i capelli si fermò ancora, preoccupato da ciò che poteva esserle accaduto e chiedendosi se anche lei fosse in qualche modo svanita oltre la porta. Poi l’oscura aura di colori che aleggiava intorno al carboncino diede a quegli occhi un’espressione che gli fece capire come stavano le cose.
«Chi è questa ragazza?» domandò suo padre. «Ha qualcosa, dentro, che ti somiglia.»