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Quel giorno Faey aveva capelli giallo-grigi e occhi viola, e indossava una specie di palandrana da alchimista con pezzi di specchio cuciti dappertutto. Fece reggere a Mag un gomitolo di cordoncino di seta e si allontanò, svolgendo il cordoncino per tutta la lunghezza della stanza. Un tempo quella era stata una sala da ballo. Artistici candelabri e quadri a olio pendevano ancora dalle pareti. Faey raccoglieva dai candelabri i prismi come fossero frutti, quando le servivano, e aveva indossato tutte le facce dei dipinti. Gli specchi, troppo usati, erano ombreggiati d’immagini.

Mag, che dalla lunghezza del cordoncino aveva capito ciò che Faey si preparava a fare, sentì una peculiare stretta in gola, come se il cuore d’oro fosse ancora fermo lì. Si domandò chi stesse per morire.

Nascondendo l’amarezza dietro il tono dolce, equivoco, che aveva imparato al bordello, mormorò: «Non può farseli da sola, i suoi incantesimi?»

«Domina Pearl? Alcuni può farli, sì. Ma non questo. Questo è antico, non getta ombra su chi lo fa e non lascia tracce.» Faey sbuffò, un po’ per la polvere, un po’ per Domina. «La sua incapacità è maggiore dei suoi talenti. E ha troppa immaginazione. Ma lassù può andar bene, la maggior parte delle volte.»

Ferma contro la parete opposta, misurò un pezzo di cordoncino di seta più corto e lo tagliò con precisione, usando i denti come cesoie. Mag la guardava con occhi inespressivi. Questo era ciò che gli umani si facevano a vicenda; prendevano la vita degli altri, e poi fingevano di non averlo fatto. Faey era onesta, a suo modo; era troppo potente per aver bisogno di mentire. Ma Mag, a cui sembrava di avere ancora il cuore d’oro in gola, sentiva che vendere morte agli umani l’avrebbe resa irrevocabilmente umana.

«Tienilo fermo», disse Faey.

«Lo sto tenendo.»

L’altra misurò un secondo pezzo di cordoncino e lo recise con un morso. Poi, stringendo tra i denti le tre estremità, intrecciò i due pezzi più corti a quello lungo che Mag aveva in mano. Quest’ultima vide le ombre tremare negli angoli della sala, e udì l’altra mormorare con chiarezza parole occulte. L’incantesimo parve scorrere lungo la seta fino a lei, facendole fischiare le orecchie. Faey si tolse di bocca i capi del cordoncino e li strinse. Tre gocce di sangue caddero sul pavimento. Poi allungò una mano dietro di sé, prese la fiammella di una candela tra le dita e la applicò al cordoncino. A mano a mano che questo bruciava, lei ne raccoglieva la cenere e il sangue sul palmo di una mano. Mag assisteva immobile e priva di espressione, come una cosa di cera. Sopra la fiamma fluttuava un uccello, un corvo mangiatore di carogne fatto di fumo, che guardava e aspettava. Anche Mag guardava. Ciò che vedeva era un sogno, un desiderio di Domina Pearl, nient’altro. La fiamma finì di divorare la tripla treccia e proseguì il suo lento viaggio lungo il cordoncino singolo, lasciandosi dietro una sottile e ininterrotta scia di cenere.

«Tienilo fermo», sussurrò Faey. «Fermo.»

«Sì», rispose Mag. Io sono cera, io sono una cosa costruita, io sono niente, pensò. La fiamma veniva lentamente verso di lei. Una goccia di sudore le scivolò sul viso come cera su una candela. Le parole seguivano la fiamma giù nella cenere; lei avrebbe voluto muovere la testa, scrollarsele fuori dalle orecchie. Infine la fiamma giunse a lei. Dall’altro capo della sala, la voce di Faey suonò rauca e senza tono.

«Soffiaci sopra.»

Lei si chinò sulla fiamma e la risucchiò tra le labbra.

Faey non se ne accorse, o non le importò. Cominciò a raccogliere su una mano la scia di cenere, mentre Mag giocava col sapore che aveva in bocca e si domandava di chi fosse quella vita. Infine Faey mise la cenere in una scatola d’avorio, e la incaricò di portarla al palazzo.

I girasoli languivano di fronte al cancello; i loro occhi erano stati beccati dagli uccelli. Era già sera quando Mag si fermò ad aspettare tra i grossi fiori, nel freddo vento autunnale. Nelle strade di Ombria non c’era un’anima, e i suoi occhi acuti non si perdevano neppure il silenzioso passaggio di un gatto nero nel buio.

Vide l’ombra che usciva dal palazzo prima che questa vedesse lei. La donna, piccola e tozza, si fermò tra le due torce fissate ai lati del cancello. Indossava un abito di seta nera avvolto addosso come un sudario, e lo stile della sua acconciatura era stupefacente: una specie di collinetta alta e severa dentro la quale avrebbe potuto nascondere un arsenale di armi. Mag sentì l’odore di età che emanava; non quello rancido della carne viva, ma un polveroso sentore di vecchie ossa. Rimase lì, rigida e tesa come una gatta tra i girasoli, celando il suo respiro nel mormorio delle foglie. Infine la donna si accorse di lei e fissò un lungo sguardo inespressivo tra gli steli frementi. Alzò un dito e lo piegò.

«Vieni qui.»

Mag uscì alla luce. Gli occhi della donna sembravano vedere di lei più cose di quante chiunque altro avesse visto in tutta la sua vita.

«Tu sei la creatura fatta da Faey.»

Mag non voleva offrire a quella vecchia cornacchia neppure il suono della sua voce, e non disse niente. Domina Pearl sorrise di un sorriso sottile come una grinza sul cuoio.

«Mi chiedo chi ti abbia fatto, in realtà. Ti ha trovato sulla soglia di una casa? O hai una storia più complicata? Possibile che lei sia così stupida da non sapere che tu sai di essere umana? Tu sei curiosa. A te piace conoscere le cose, vedere i segreti. Ti dirò una cosa: se ti sorprendo a spiarmi ancora, ti distruggerò così completamente, nel passato e nel futuro, che neppure Faey riuscirà a ricostruirti. Dammi la scatola.»

Quella notte il principe di Ombria, che per tutta la vita aveva sofferto di strane e improvvise indisposizioni, si ammalò gravemente. Mag restò seduta per buona parte del mattino successivo nel camino che si alzava tra le radici dei girasoli, ad ascoltare le chiacchiere che echeggiavano giù tra le pietre, mentre le carrozze di medici e farmacisti, e di parenti venuti da altre località passavano dal cancello. Si addormentò così, con la testa posata sui mattoni del camino. Nei suoi sogni udì le voci che scendevano dall’alto dire che la vita del principe era stata risparmiata per qualche miracolo; non sarebbe morto quella notte. L’ultima cosa che vide, un ricordo o un avvertimento, furono due occhi che la fissavano, neri e vuoti come quelli di un rospo.

3

Gatto e topo

Quando infine venne l’ora del principe, due anni più tardi, fu senza nessun aiuto da parte di Faey. Non appena ebbe notizia della morte di suo zio, Ducon Greve prese in braccio il singhiozzante Kyel e scomparve; questo fu tutto ciò che il personale di palazzo poté riferire. Dove quei due fossero finiti, di preciso, mentre si pensava che stessero andando a dare l’ultimo saluto al defunto, nessuno seppe dirlo a Domina Pearl, sebbene chi era incaricato di sorvegliarli giurasse di non averli persi di vista un solo istante.

«Temevo che sarebbe successo questo», dichiarò seccamente la Perla Nera. «Quel bastardo ucciderà il bambino. Trovateli.»

Ducon, che aveva trascorso buona parte della vita esplorando il labirinto di passaggi segreti, porte nascoste e scale mai usate da nessuno nell’antico e vasto palazzo, udì quello scambio di parole mentre percorreva uno stretto cunicolo oltre la parete del corridoio dove si erano radunati guardie e cortigiani. Aveva Kyel su un braccio e una candela nell’altra mano. Il bambino gli si aggrappava al collo, in silenzio, e con occhi sbarrati guardava le ombre scorrere sui muri tappezzati di pannelli di legno davanti a loro.

C’erano candele spente che Ducon aveva piazzato in qualche nicchia durante le sue esplorazioni. Sapendo che li avrebbero cercati, le tolse, perché non voleva lasciare tracce dietro di sé. Fino a che punto Domina Pearl conoscesse il palazzo, lui non ne aveva idea. Se la donna li avesse trovati da soli, senza testimoni, avrebbe potuto farli uccidere entrambi e poi attribuire a lui l’assassinio dell’erede al trono.