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«Possiamo parlare, ora?» sussurrò Kyel. Ducon, che ancora udiva un mormorio di voci oltre il muro, gli mise un dito sulle labbra. Il bambino mantenne il silenzio; era troppo stupito dall’esistenza di quei percorsi nascosti per ricordarsi di piangere. Era stato il visetto pallido del bambino, il suo quieto e disperato gemito quando gli avevano detto che suo padre era morto e che Lydea non voleva più stare con lui, a colpire il cuore di Ducon. Senza pensarci due volte il giovane l’aveva preso in braccio ed era uscito, per portarlo lontano da un posto dove per lui c’era soltanto dolore.

Si fermò davanti a tre pannelli dipinti a motivi floreali e forniti di cardini. La piccola porta si aprì senza rumore. Pochi passi lo portarono in una stanza priva di finestre, situata insieme ad altre su un piano segreto invisibile dall’esterno del palazzo. Le stanze erano piene di tappezzerie mangiate dalle tarme, rigide e sottili sedie riccamente intagliate, oggetti appartenenti a secoli dimenticati. Qui rimise Kyel con i piedi a terra.

«Ora possiamo parlare.»

Kyel si guardò attorno, poi alzò su di lui i suoi occhi blu, uguali a quelli del padre. «Questo è un rifugio segreto?» domandò.

«È il tuo rifugio. Tutti i suoi segreti appartengono a te, come questo palazzo e l’intera Ombria.»

«Non a te.»

«No. Non a me, e neppure a Domina Pearl.»

«Ma tu», osservò Kyel, «conosci tutti questi posti segreti.»

Ducon fece un sorrisetto. «Anche tuo padre ne conosceva alcuni.»

«È qui che si è nascosta Lydea?»

«No.» Il sorriso di Ducon svanì. S’inginocchiò e attrasse Kyel a sé, così vicino che lui non poteva vederlo in faccia. Lydea era una fiamma spenta; Lydea era ieri; Lydea, da sola nelle strade di Ombria, stava già diventando una persona che nessuno di loro due avrebbe più riconosciuto, se fosse sopravvissuta abbastanza da rivederli. «Lydea è tornata da suo padre.»

«Domina Pearl ha detto che lei non vuole stare con me.»

«Domina Pearl ha mentito. Lydea ti ama molto.» Ducon esitò, non sapendo quanti altri bocconi amari il bambino poteva sopportare quella sera. «Lei avrebbe voluto restare con te.»

«Allora Domina l’ha mandata via», sussurrò Kyel. Immerse il viso contro una spalla dell’altro, per non vedere ciò che aveva attorno. La sua voce fu un gemito attutito dalla stoffa. «Domina ha mandato via Jacinth, e Lydea… manderà via anche te?»

«Forse.» Ducon lo vide rialzare la testa, rosso in viso e sul punto di mettersi a gridare. Posò una guancia contro quella calda e paffuta di lui. «Ssttt. Se ci sentono, questo posto non sarà più segreto.»

«Dille che non deve mandarti via!»

«Glielo dirai tu. Non ora, ma quando sarai più grande. Ora dovrai fare ciò che vuole lei. E ogni volta che vorrai dirle di no, farai un disegno di quello che non vuoi. Io ti mostrerò un posto segreto dove lasciarlo. Non dovrai mai dirle di no finché non sarai abbastanza grande da poterla costringere a fare ciò che vuoi. Io ti aiuterò come potrò. Ti assicuro…»

«Ducon, non andare via.»

«Starò con te, se non me lo impediranno.» Gli prese il visetto tra le mani, cercando in lui suo zio. Una morsa dolorosa gli stringeva la gola. Deglutì, appoggiando la fronte su quella di Kyel, «Per favore», disse. «Gioca questa partita con me, una partita fatta di silenzio, di disegni segreti, di posti segreti. Ti prego. Promettimelo.»

Kyel si abbandonò contro di lui. La promessa non gli uscì subito dalle labbra; quando gliela diede, fu poco più di un sospiro.

Ducon lo portò ai piani superiori dell’edificio, gli mostrò labirinti di passaggi, porte astutamente mimetizzate che si aprivano su camere da letto, stanze di riunioni, sale da ballo. Le cose di cui lì si discuteva non interessavano molto Ducon; gli bastava aver imparato a muoversi in quei passaggi segreti, e adesso l’importante per lui era poter condurre Kyel in una stanza particolare del palazzo, senza fretta. Il bambino lo seguiva volentieri, talvolta per mano, talvolta facendosi tenere in braccio, benché fosse ancora rigido e pallido per le dolorose emozioni di quella notte. Sembrava sperare che, se fossero arrivati abbastanza lontano, Ducon lo avrebbe portato fuori dalla paura e dall’incertezza, in qualche posto dove suo padre era ancora vivo e Domina Pearl non esisteva.

Salirono nelle deserte e dimenticate soffitte del palazzo, così in alto che quando udirono i passettini di topo della pioggia sul tetto Kyel domandò, stupito: «Che cos’è?»

«Sta piovendo.»

La pioggia cadde a lungo nel silenzio, dolce come la ninnananna che una notte Ducon aveva sentito Lydea cantare a Kyel con voce sempre più bassa, mentre le palpebre del bambino si chiudevano lentamente. Kyel stringeva forte la mano del compagno, perché intorno a loro c’erano anche strani rumori oltre la pioggia.

Le mura secolari piangevano acqua; il legname marciva, la calcina vecchia si sgretolava, il cemento continuava a inzupparsi di umidità e gemeva come se l’antico edificio stesse soffrendo. I piccioni che udivano avvicinarsi i loro passi si alzavano in volo nel buio per andare ad appollaiarsi altrove. Vasti solai si perdevano nelle tenebre fuori dalla vacillante luce della candela; le ombre si muovevano e sospiravano. Misteriosi riflessi aurei nascevano nelle profondità di quegli ambienti dove le dorature di antichi mobili non erano state coperte dalla polvere.

C’erano pavimenti consumati dal passaggio di cortigiani in tempi nei quali quelle stanze erano state, per qualche motivo, tra le più frequentate dell’edificio, e porte e finestre corrose, che Ducon aveva disegnato ad acquerello. Nel guardarle, lì sull’elusivo confine tra la luce e l’ombra, il giovane si chiedeva se la piccola stella che vedeva su un vetro fosse il riflesso della sua candela o un’altra fiammella che veniva verso di lui.

Il palazzo, come la città, affondava dentro di sé da più tempo di quanto chiunque potesse immaginare; i pavimenti s’incurvavano; i quadri appesi alle pareti si scrostavano e talora rivelavano altri dipinti sotto le scaglie di pittura secca; le travi e i travicelli si deformavano senza requie, notte dopo notte, secolo dopo secolo.

Ducon, per ragioni che lui stesso non capiva bene, si era assunto il compito di testimoniare quei cambiamenti, eseguendo centinaia di disegni e di acquerelli nel corso degli anni. Ogni tanto la Perla Nera ci frugava in mezzo e li lasciava in disordine, senza preoccuparsi di cosa ne pensasse lui. Ducon si era chiesto se lei sapesse perché aveva dipinto più volte la stessa porta, in diverse condizioni di luce. Era mescolata tra le porte, i cancelli, le arcate, le scale e i vicoli di Ombria, il cui scopo era d’ingannare gli occhi di lei. Domina Pearl pensava che lui vagabondasse per le strade di Ombria soltanto alla ricerca delle vecchie porte. Questo era ciò che lui supponeva, e sperava che fosse vero, e che ora non avrebbe trovato la donna ad aspettarli nel cuore dell’antico palazzo.

Kyel inciampò, ed emise un gemito; Ducon capì che il bambino era mezzo addormentato. Si fermò e lo prese in braccio. Kyel stava tremando di freddo, con gli occhi annebbiati dalla stanchezza, ma si voltò a guardare avanti in cerca del posto sicuro dove Ducon intendeva portarlo. Era una porta tra le tante. A distinguerla c’erano solo strisce iridescenti d’arcobaleni dipinte sui montanti. Quella di sinistra aveva ceduto sotto il peso del soffitto ed era incrinata, con tutta la pittura scrostata. Su quella di destra, le delicate sfumature di verde e porpora erano intatte. Ducon si fermò.

Rimase lì a lungo sulla soglia, sotto l’architrave, guardando la piatta lastra di buio dove neppure la luce della candela poteva entrare, mentre Kyel finiva per addormentarsi contro la sua spalla.

Sulla soglia l’aria tremolava, odorosa d’erba, di pioggerellina lenta e di lavanda. Una luce palpitò, riflettendo la candela di Ducon, se lontano o vicino lui non poté capirlo in quel buio totale. C’erano voci, sussurri. Una campana cominciò a suonare lentamente a morto, lontana e oltre il confine dell’ombra, per qualcuno passato a miglior vita.