Ducon sentì la mano dell’infelicità e dello stupore sfiorarlo in una gelida carezza. Scosso, incapace di muoversi, udì una seconda campana, più forte, la cui grande bocca aperta diceva parole che Royce Greve non poteva più dire. Chiuse gli occhi pieni di lacrime brucianti e si chiese se, nella città-ombra, qualcun altro si era fermato come lui in un posto segreto ad ascoltare le campane a lutto di una città che esisteva solo nei racconti.
Kyel si svegliò mentre si lasciavano alle spalle la pioggia ed entravano di nuovo nel labirinto dei passaggi segreti.
«Siamo arrivati?» domandò il bambino. Ducon camminava in fretta. Aveva preso una scorciatoia e tendeva le orecchie per percepire passi e voci inaspettate.
«Non ancora.»
Kyel ricominciò a sonnecchiare e si svegliò mentre Ducon si fermava di fronte a una porticina. Il giovane soffiò sulla candela e la mise in un candelabro fissato al muro. Poi girò la maniglia e aprì di una fessura.
«Questa era la camera di Jacinth», sussurrò. «Ora che tu non hai più una bambinaia, resterà vuota. È qui che devi lasciare i disegni per me. L’altro lato di questa porta è uno specchio. Nella cornice dello specchio ci sono due gemme rosse. Per aprire la porta bisogna premerle insieme. Te lo ricorderai?»
«Due gemme rosse», annuì Kyel, ubbidiente. Aveva gli occhi socchiusi.
«È un segreto», gli ricordò Ducon. «Il nostro segreto.» Aprì la porticina e attraversò la soglia.
Mentre lo specchio si chiudeva dietro di loro con un click, improvvisamente la lama di uno spadone passò sopra la testa di Kyel rapida come un fulmine e si appoggiò, gelida, alla gola di Ducon.
Kyel si contorse; la lama graffiò la carne dalla quale uscì una goccia di sangue. «No!» ansimò il bambino, improvvisamente sveglio.
Ducon, raggelato, guardò gli occhi inespressivi della guardia di palazzo, una delle tante che per anni l’avevano visto uscire nei suoi eccentrici vagabondaggi e mai avevano osato far domande. Il volto di pietra della guardia era così inespressivo che l’uomo sembrava in trance. Ducon si rese conto che non riconosceva più l’uomo che stava per uccidere: adesso conosceva soltanto Domina Pearl.
In quel momento vide che c’era anche lei, tra la porta della camera da letto di Kyel e quella della bambinaia. Altre guardie le passarono accanto con le spade sguainate ed entrarono nella stanza, con gli occhi gelidamente fissi sulla preda della Perla Nera.
Ducon non era certo che la donna lo avesse visto uscire dal muro; lo sguardo di lei non gli diceva niente. Questo non importava più, del resto, e il giovane fu sorpreso dal pensiero che la sua vita stava per finire lì, a un passo dallo specchio che aveva appena oltrepassato.
Ma lo aspettava un’altra sorpresa.
«Portate il principe a letto», ordinò Domina Pearl alle guardie che si erano affollate, come un riccio irto di punte aguzze, intorno a Ducon. «Chiamate i suoi servi. Il bastardo lasciatelo a me.»
La spada si staccò dalla sua gola. Ducon depose dolcemente Kyel al suolo, e lo sentì tremare. Il bambino aprì la bocca come per dire qualcosa, poi vide che lui scuoteva il capo e rinunciò a parlare, ma continuò a tenere lo sguardo in quello del cugino finché le guardie non lo portarono via.
Domina Pearl chiuse la porta dietro di loro. Per qualche istante osservò Ducon senza dir verbo. Il suo viso, pensò stancamente il giovane, sembrava un panorama dimenticato dal tempo, un deserto, dove non era rimasto più molto di umano. Mentre sosteneva quello sguardo sentiva il sangue sgocciolare nel colletto della camicia.
Poi la bocca rugosa si aprì in una smorfia. «Ducon Greve, io non ho bisogno di voi per governare Ombria. Non ho bisogno neppure del bambino. Uno qualsiasi dei decrepiti somari in linea di successione dopo di lui andrebbe altrettanto bene per me, e forse mi darebbe meno problemi. Io sono più vecchia di quanto chiunque a corte possa ricordare. Mi sono sentita chiamare prozia dai governanti e dai loro eredi per più tempo di quello che voi immaginate. Ora, con un principe appena uscito dalla culla e gli altri eredi con un piede nella fossa, ho finalmente la possibilità di salire al potere. Nessuno può mettere in discussione il mio diritto. Voi osereste farlo?»
La domanda sembrava retorica, ma stava per rispondere. Lei non gliene diede il tempo; il suo volto era una ragnatela di rughe. «Sì, vi conosco bene», disse. «Perciò vi avvertirò una volta sola: se cospirerete contro di me, o interferirete con me in qualsiasi modo, ammazzerò Kyel e farò ricadere la colpa sulla vostra testa. Mi capite?»
«No», sussurrò lui. «Non vi capisco affatto.»
Lei gli mostrò i denti rotti e ingialliti, come una vecchia e feroce gatta di strada. Era la sua versione di un sorriso.
«Siete avvisato. Io ho molti occhi in questo palazzo. E molte orecchie. Se mi tradite, lo verrò a sapere. Preferirei lasciar vivere il bambino, per dare un’apparenza di continuità. Il principe è morto, viva il principe. È un’illusione che potrebbe servirmi con altri regnanti di altre nazioni. Ma la sua vita dipende da voi, Nobile Ducon. Se non tenterete di farmi del male, io non farò del male a lui.»
Domina Pearl si voltò per uscire. In quel breve momento Ducon pensò quanto sarebbe stato facile spezzare quel fragile collo di uccello tra le dita. La donna si fermò, gli gettò uno sguardo, e lui sentì due mani fredde e lisce come il vetro scivolargli intorno alla gola e stringere. «Questo, Nobile Ducon», udì nell’improvviso vento nero che gli ruggiva nella testa, «è un avvertimento.»
Si svegliò qualche tempo dopo ai piedi dello specchio, con la gola dolorante come se avesse ingoiato una spada. Riuscì a tirarsi in piedi e si gettò sul letto di Jacinth.
Lì trovò un poco di conforto nel profumo di viole rimasto tra le coltri, e nel vivido ricordo delle delicate mani di lei, prima che la lunga notte aprisse occhi di rospo nei suoi pensieri.
4
Il dilemma dell’alchimista
«E così, quella vecchia scopa ha spazzato via il Reprobo, alla fine», commentò Faey. La solitaria campana del palazzo aveva suonato a morto per tutta la notte. All’alba le altre campane della città, quelle degli orologi e sulle torri di guardia, si erano unite a essa, e l’aria era parsa vibrare al passaggio di poderose e invisibili ali di bronzo. «Lascia un bambinetto al governo, e una prozia vecchia, ma ancora capace d’impadronirsi del potere. Non ho bisogno della sfera di cristallo per sapere che lei si autoproclamerà reggente, e che il bastardo sarà la sua prossima preda.»
«Non il bambino?» domandò Mag. Stavano facendo colazione, una volta tanto all’ora di colazione. Faey era vestita a lutto. Il bel viso pallido e stanco, addolorato, e l’abito che indossava erano stati presi da uno dei quadri appesi al muro. A servire in tavola erano delle ombre, vaghe forme di colore in movimento, abbigliate in modi diversi, che spesso sembravano non vedersi a vicenda. La cuoca di Faey era una donna corpulenta quanto efficiente, che teneva pulita come uno specchio la cucina e fingeva di non notare chi tra il suo personale era reale e chi ombra. «Ducon Greve non è in linea di successione; perché Domina Pearl dovrebbe temerlo?»
«Non è in linea di successione, ma potrebbe decidere di entrarci. Lei può tenere sotto controllo il bambino per molti anni… per sempre, se comincia bene. Ma Ducon è un’incognita.»
E lo era davvero. Nonostante tutto il tempo trascorso a origliare da sotto i girasoli, Mag sapeva ben poco di lui. Spezzò l’angolo di una fetta di pane e fece una smorfia di dolore. Si era storta un pollice in qualche alterco durante la corsa selvaggia della notte prima. Ripensando alla discussione alla porta dei girasoli, sentì l’improvviso impulso d’immischiarsi nelle faccende politiche. Il palazzo, che per anni le era parso meno accessibile e molto meno interessante delle strade di Ombria, stava assumendo aspetti intriganti, oscuri e luminosi. La gente appariva schierata da una parte o dall’altra. Il bambino e la vecchia si fronteggiavano. La concubina emarginata, finita con una scopa tra le mani, era schierata con Kyel.