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A quale fazione appartiene Ducon Greve? si domandò Mag. Stava per conto suo? Un uomo diviso, con un piede alla luce e l’altro all’ombra? O parteggiava per il principe bambino? Sicuramente non per la vecchia scopa, che poteva spazzarlo via dal presente con la stessa cinica abilità messa in atto con suo zio.

Faey, che nonostante l’aria addolorata mangiava con appetito del pesce affumicato, gettò uno sguardo cinico verso l’altra estremità del lungo tavolo. «Non è che stai pensando, vero, mia bambola di cera? Io non ti ho fatta per pensare.»

«Ogni tanto, un pensiero ce l’ho», ammise Mag.

«Be’, fare una come te è difficile, e di rado non si commettono sbagli. Resta lontana da Domina Pearl. Lei ci dà lavoro, ma non ha scrupoli. Non voglio che tu desti la sua attenzione.»

«Credevo che avessi detto che è un’incapace.»

«Lo è», disse sottovoce Faey. «Ma lo sei anche tu. Lei potrebbe fonderti come una candela, se tu le mettessi i bastoni tra le ruote. Non farmi perdere tempo in chiacchiere, solo tieniti fuori dalla sua ombra.»

«Sì, Faey.»

«Voglio che tu vada di sopra. Ho bisogno di alcune cose. Non metterci troppo. Verso mezzogiorno avremo un altro lavoro. Quelli che temono la presa di potere di Domina Pearl si aggireranno dappertutto in cerca d’incantesimi protettivi.»

«Come puoi fare qualcosa che aiuti loro, e nello stesso tempo qualcosa che aiuti lei?» volle sapere Mag, incuriosita. «Dovrai disfare i tuoi stessi incantesimi.»

Faey scrollò le spalle. «Sono soltanto affari. Chi paga per essere protetto non verrà a chiedere indietro i suoi soldi, se l’incantesimo fallisce.» Si mise in bocca un pezzo di pesce, ne spinse delicatamente da parte le spine con la lingua mentre masticava e le sputò nel piatto. Poi si alzò. «Vieni da me non appena hai finito di mangiare. Ti darò la lista della roba che dovrai andare a prendere lassù.»

Rimasta sola con i suoi fantasmi, Mag giocherellò con una crosta di pane e rifletté su un paio di pensieri. Le fu servita una tazzina di caffè corretto con menta e cioccolata. Se la portò al naso e annusò rumorosamente, quindi bevve un sorsetto, come usava nell’alta società. Se la Perla Nera avesse chiesto l’aiuto di Faey per accorciare la vita di Ducon Greve, per il mondo sarebbe stato un danno o un guadagno? Faey stava usando i suoi poteri e la sua assistente di cera per vendere ancora la morte. Mag si chiese perché — e per il bene di chi — lei avrebbe dovuto rischiare la rabbia di Faey ostacolando gli incantesimi che vendeva. Per Faey, gli affari erano affari. Non aveva niente di personale contro quelli che finivano male a causa sua, e dava per scontato che la sua assistente di cera fosse indifferente nello stesso modo. Ma la sua assistente di cera sentiva, con l’intensità della cera che sente la fiamma, che Domina Pearl era una cosa a parte.

Le sue ossa e la sua ombra e i suoi occhi vuoti non portavano altro che il male a Ombria. Le sue manovre avevano guastato l’anima della città, in quelli che avrebbero potuto essere i suoi giorni migliori, e la stavano trasformando in una serra dove coltivava le sue piante, amare e spinose. Faey sembrava indifferente al lavoro che la Perla Nera faceva in città e nel palazzo; lei non poteva essere sfiorata dagli intrighi della vecchia. Ma Domina Pearl aveva un potere di cui Faey sembrava ignara: quello di avvelenare le cose con l’odio. La donna aveva scacciato in strada la concubina del principe per farla ammazzare, senza che lei avesse commesso altro crimine che vendere la sua innocenza. Poteva contemplare l’idea di dare la morte a un bambino. Avrebbe ucciso ancora, in segreto, con o senza l’aiuto di Faey.

Mag, che era affascinata dai segreti, studiò la superficie del caffè, fremente sotto il suo respiro. Fin dove arrivavano i poteri della vecchia? Dove li aveva presi? Chi era, in realtà? Era nativa di Ombria, o proveniva da qualche terra, così lontana nello spazio e nel tempo che nulla ne era restato, fuorché il nome e quell’oscura progenie, l’indistruttibile Pearl?

La donna del quadro trovò improvvisamente l’uso della bocca e chiamò: «Mag!»

Lei sussultò, sentendosi in colpa. «Sì, Faey?»

«Tu stai pensando, mia bambola di cera.»

Lei prese una repentina decisione e finì il caffè, mentre si alzava da tavola. «Vengo subito», disse, sia a Faey che alla giovane donna di via del Pastore, che aveva gettato tra i girasoli le scarpette dai tacchi costellati di zaffiri.

Le prese con sé, quando uscì nel sole esterno.

Dal macellaio acquistò una testa d’agnello. A una ben nota porticina su un vicolo posteriore, attese per gli occhi di capra e le candele di grasso di capra. Nella botteguccia dalla vetrina polverosa con l’antica insegna di un erborista, comprò farina d’ossa, ed estratti di strane piante carnose prelevate nascostamente a bordo delle navi pirata di Domina Pearl. Al mercato, acquistò delle violette per la cuoca. Dal birraio pagò in argento per dello stagno e per una giara della birra preferita di Faey. Il figlio del birraio finse di avere difficoltà a calcolarle il resto, e continuò a far tintinnare monete, finché suo padre smise di chiacchierare amabilmente e andò a caricare dei barilotti per un mercante. Poi, mentre Mag metteva la giara nel cestino cercando di non schiacciare gli occhi di capra e le violette, il giovane si allungò sopra il bancone e le prese una mano.

Lei lo guardò con stupore. Il figlio del birraio aveva grosse dita umide.

«Mag», disse lui, con voce roca. Il suo volto pesante, ansioso, era imperlato di sudore, e sul mento cominciava a crescergli un’ombra di barba. «Come puoi ignorare che tu e io ci apparteniamo? Siamo cresciuti insieme, come la notte e il giorno. Tu sei la luna del mio sole, tu sei l’argento dell’oro a cui aspiro, tu mi completi…»

«Aspetta un momento», lo pregò lei. «La giara è sopra le violette.»

«Sposami. Insieme noi diventeremo la cosa meravigliosa che stiamo cercando. Trasmuteremo il tempo nell’eternità…»

Lei sbuffò con assai poca grazia. Sentiva che qualcosa di strano le scorreva nelle ossa, un panico sconosciuto, una disperata urgenza che non avrebbe saputo descrivere neppure a se stessa. Il giovane credeva di avere dinanzi a sé un essere umano.

«Ti sbagli», disse, fredda. «Comunque, da quanto ne so dell’alchimia e del matrimonio, il bello di entrambe le cose viene meglio, quando si aspetta.»

«Mag!» Lui si aggrappò al cestino, mentre lei metteva a posto la giara.

«Inoltre, io appartengo a Faey.»

«Ma lei non può possedere…»

«Lei può. Io sono la sua figlia di cera.»

«Ma…»

«La cera si trasmuta in fumo e aria, non in oro.»

«Ma io ti amo!»

Mag si limitò a guardarlo, perplessa. Lui sollevò le braccia in aria, con un mugolio, e lei fuggì.

In strada, le ombre le dissero che il tempo stava passando. Lei ne rubò un poco a quello che Faey le aveva concesso, prese una scorciatoia attraverso una bottega abbandonata e quello che sembrava il fondo di un vicolo chiuso da un muro, per passare da via del Pastore. Lì trovò già aperta la Rosa e Spina, dove aveva visto entrare a rifugiarsi la ragazza dai piedi sanguinanti dopo la sua fuga notturna per le strade della città. La zoppicante sguattera che serviva birra e montone bollito ai pochi clienti della taverna non la vide entrare. Aveva lo sguardo cupo per la sofferenza e la preoccupazione, e i suoi capelli, un tempo luminosi, erano annodati sotto un berretto. L’uomo dietro il bancone, calvo come una biglia e corpulento, la scrutava a occhi socchiusi. La ragazza lavorava con umiltà e senza lamentarsi, anche se ogni tanto stringeva i denti per il dolore. Mag infilò una scarpa costellata di zaffiri in un secchio vuoto, nell’angolo dietro il bancone, e scivolò fuori prima che la vedessero.