Quando la cerimonia terminò e le sacerdotesse vestite di scarlatto uscirono, chinai il capo e finsi di essere profondamente immerso nella preghiera. Ben presto, scoprii che la mia finzione era divenuta realtà: rimasi consapevole del mio corpo inginocchiato, ma solo come un fardello periferico. La mia mente era sperduta fra le distese stellate, lontano da Urth ed in verità lontano anche dall’arcipelago di mondi circostanti, e mi parve che ciò cui stavo parlando fosse ancora più lontano… di essere giunto alle pareti dell’universo e di star ora gridando attraverso quelle pareti a qualcuno che era fermo dall’altra parte.
Ho detto “gridare”, ma forse è il termine sbagliato. Piuttosto, sussurrai, come forse Barnoch, murato nella sua casa, poteva aver sussurrato attraverso qualche fessura ad un passante compassionevole. Parlai di quello che ero stato quando portavo la camicia lacera ed osservavo le bestie e gli uccelli attraverso la stretta finestra del mausoleo e di quello che ero diventato. Parlai anche, non di Vodalus e della sua lotta contro l’Autarca, ma dei motivi che io gli avevo un tempo scioccamente attribuito. Non m’ingannai con il pensiero di avere in me la capacità di guidare milioni di persone, chiesi soltanto di poter guidare me stesso, e, mentre lo facevo, mi parve di vedere, con una chiarezza di visuale crescente, attraverso una fessura dell’universo, un nuovo universo bagnato di una luce dorata, dove il mio ascoltatore stava inginocchiato per ascoltarmi. Quella che mi era parsa una crepa nel mondo si era allargata fino a permettermi di scorgere un volto e due mani piegate, e l’apertura che, simile ad un tunnel, correva in profondità dentro una testa umana che per un po’ mi parve più grande della testa di Typhon intagliata nella montagna. Stavo sussurrando nel mio stesso orecchio, e, quando me ne accorsi, vi volai dentro come un’ape e mi alzai in piedi.
Se n’erano andati tutti, ed il silenzio era profondo al punto da sembrare sospeso nell’aria con l’incenso. L’altare si levava dinnanzi a me, umile in confronto a quello che Agia ed io avevamo distrutto, eppure splendido con le sue luci e la purezza dei lini e dei pannelli di marmo e lapislazzuli. Mi feci avanti e m’inginocchiai dinnanzi ad esso. Non avevo bisogno di uno studioso che me lo dicesse per sapere che il Teologumeno non era adesso più vicino, eppure mi sembrava che fosse così e mi riuscì… per l’ultima volta… di tirar fuori l’Artiglio, qualcosa che temevo non sarei riuscito a fare. Formando le sillabe nella mente soltanto, dissi:
— Ti ho trasportato sopra molte montagne, al di là di fiumi, ed attraverso le pampas. Tu hai dato a Thecla la vita dentro di me. Tu mi hai dato Dorcas, ed hai restituito Jonas al suo mondo. Certo non ho lamentele da farti, anche se tu ne devi avere molte nei miei confronti. Ce n’è però una che non merito, e non si potrà dire che non ho fatto tutto quello che potevo per rimediare al male che ho commesso.
Sapevo che l’Artiglio sarebbe stato gettato via se lo avessi lasciato apertamente sull’altare, e, salito sulla piattaforma, frugai fra i suoi arredi in cerca di un nascondiglio che fosse sicuro e permanente, ed alla fine notai che la lastra di pietra che formava l’altare stesso era sostenuta inferiormente da quattro morse che non erano certo state allentate da quando era stato costruito e che sembrava sarebbero rimaste al loro posto fino a che l’altare fosse esistito. Ho le mani forti, e riuscii ad allentarle, anche se credo che la maggior parte degli uomini non ci sarebbe riuscita. Sotto la pietra, parte del legno era stata tagliata via, in modo che la lastra poggiasse solo sulle estremità e non dondolasse… e questo era più di quanto osassi sperare. Servendomi del rasoio di Jonas tagliai un piccolo quadrato di tessuto dal bordo del mio ormai consunto mantello della corporazione. Avvolsi in esso l’Artiglio, poi lo deposi sotto la pietra e strinsi di nuovo le morse, insanguinandomi le dita nello sforzo di assicurarmi che non potessero allentarsi per qualche incidente.
Mentre mi allontanavo dall’altare, avvertii un profondo dolore, ma non ero arrivato a metà strada dalla porta della cappella che mi sentii impadronire da una gioia selvaggia. Il fardello della vita e della morte era stato sollevato dalle mie spalle, ed ora ero di nuovo soltanto un uomo, ed ero delirante dalla soddisfazione. Mi sentivo come mi ero sentito da bambino quando erano finite le lunghe lezioni con il Maestro Malrubius ed ero libero di giocare nel Vecchio Cortile o di arrampicarmi attraverso l’apertura nel muro per correre fra gli alberi ed i mausolei della nostra necropoli. Ero caduto in disgrazia, ero un fuoricasta senza casa, senza amici e senza danaro, ed avevo appena rinunciato all’oggetto di maggior valore che ci fosse al mondo e che era forse, alla fine dei conti, l’unico oggetto che avesse valore al mondo. Eppure, ero certo che tutto sarebbe andato bene. Ero sceso fino al fondo dell’esistenza e lo avevo tastato con le mie mani, ed ero consapevole che là c’era il fondo, e che da questo punto in avanti potevo soltanto risalire. Mi avvolsi il mantello intorno alla persona come avevo fatto quando ero un attore, perché adesso sapevo di essere un attore e non un torturatore, anche se ero stato un torturatore. Balzai in aria e saltellai come fanno le capre sui prati montani, perché sapevo di essere un bambino e che nessun uomo può essere tale se non lo è.
All’esterno, l’aria fredda sembrava fatta espressamente per me, una nuova creazione e non l’antica atmosfera di Urth. M’immersi in essa, dapprima aprendo il mantello e poi sollevando le braccia verso le stelle, e riempii i polmoni come un neonato che avesse appena evitato di annegare nei fluidi della nascita.
Tutto questo richiese meno tempo di quello che ho impiegato per descriverlo, e stavo per tornare alla tenda del lazzaretto da cui ero venuto, quando mi resi conto della presenza di una figura immobile che mi osservava dall’ombra di un’altra tenda, ad una certa distanza. Fin da quando il bambino ed io eravamo sfuggiti alla cieca ricerca della creatura che aveva distrutto il villaggio dei maghi, avevo avuto paura che qualcun altro dei servitori di Hethor mi potesse cercare ancora. Stavo per fuggire, quando la figura si spostò alla luce della luna e vidi che si trattava soltanto di una Pellegrina.
— Aspetta! — chiamò, e, facendosi più vicina, aggiunse: — Temo di averti spaventato.
Il suo volto era un liscio ovale che sembrava quasi asessuato. Era giovane, pensai, anche se non altrettanto giovane quanto Ava, e di un buon paio di teste più alta di lei… una vera esultante come lo era stata Thecla.
— Quando si è vissuti a lungo nel pericolo… — iniziai.
— Capisco. Non so nulla della guerra, ma so molto degli uomini e delle donne che l’hanno vista.
— Ed ora, in che cosa ti posso servire, Castellana?
— Prima di tutto, devo sapere se stai bene. Ti senti bene?
— Sì — risposi. — Me ne andrò di qui domani.
— Allora eri nella cappella a ringraziare per la tua guarigione.
— Avevo molto da dire, Castellana — replicai, esitando. — Questo ne costituiva una parte, sì.
— Posso camminare con te?
— Naturalmente, Castellana.
Ho sentito che una donna alta sembra più alta di qualsiasi uomo, e forse è vero. Questa donna aveva una statura senz’altro inferiore a quella di Baldanders, eppure camminare accanto a lei mi faceva sentire quasi un nano. Mi rammentai anche come Thecla si fosse chinata su di me quando ci abbracciavamo e di come le avessi baciato il seno.
Quando avemmo percorso una quarantina di passi, la Pellegrina disse:
— Cammini bene. Le tue gambe sono lunghe e credo che abbiano coperto molte leghe. Non sei un soldato di cavalleria?
— Ho cavalcato un poco, ma non con la cavalleria. Ho attraversato le montagne a piedi, se è questo che intendi, Castellana.
— Questo è un bene, perché non ho una cavalcatura da darti. Ma non credo di averti detto il mio nome. Mi chiamo Mannea, la signora delle postulanti del nostro Ordine. La nostra Domnicella è assente, e così per ora sono io a capo della gente di qui.