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In quel momento ci fu un lampo di luce sulfurea che tinse il ventre di ogni nube. Non molto lontano, qualche grande bombarda aveva lanciato il suo carico di morte, e, sotto quella violenta illuminazione mi accorsi che avevo raggiunto la cima dell’altura e che la casa che avevo scorto lassù non era visibile da nessuna parte. Mi distesi sulla vuota spianata e sentii le prime gocce di pioggia che mi cadevano sul volto.

La mattina dopo, infreddolito e depresso, mangiai un po’ del cibo che mi ero portato dal lazzaretto e mi avviai giù per il lato opposto dell’alta collina di cui l’altura costituiva una parte. Il pendio era dolce, ed era mia intenzione ripiegare lungo la spalla della collina fino a raggiungere di nuovo la stretta vallata indicata sulla mappa.

Non riuscii a farlo. Non perché la strada fosse ostruita, ma piuttosto perché, quando, dopo molto camminare, arrivai dove avrebbe dovuto trovarsi ciò che cercavo, scorsi un luogo completamente differente, una valle meno profonda ed un corso d’acqua più largo. Dopo aver sprecato parecchi turni di guardia cercando laggiù, scoprii il punto da cui (così mi sembrava) avevo avvistato la casa dell’anacoreta appollaiata sulla cima dell’altura. Inutile dire che adesso non c’era più e che l’altura non appariva né così alta né così ripida come la ricordavo.

Fu là che trassi fuori di nuovo la mappa e notai, studiandola, che Mannea aveva scritto, con calligrafia così sottile che stentavo a credere fosse stata tracciata con la penna che le avevo visto in mano, le parole L’ULTIMA CASA, sotto l’abitazione dell’anacoreta. Per qualche motivo, quelle parole e l’immagine della casa in cima alla roccia mi ricordarono l’abitazione che Agia ed io avevamo visto nel Giardino della Giungla, dove marito e moglie sedevano ad ascoltare l’uomo nudo chiamato Isangoma. Agia, che conosceva tutto ciò che accadeva nel Giardino Botanico, mi aveva detto che se mi fossi girato sul sentiero ed avessi tentato di tornare alla capanna, non l’avrei trovata. Riflettendo su quell’incidente, scoprii che non le credevo adesso, ma che le avevo creduto allora. Poteva darsi, naturalmente, che la mia perdita di credulità fosse dovuta ad una semplice reazione al suo tradimento, di cui avevo adesso avuto sufficienti prove. O poteva semplicemente darsi che allora fossi molto più ingenuo, quando mi trovavo a meno di un giorno di viaggio dalla Cittadella e dalla protezione della corporazione. Ma era anche possibile… ed ora mi sembrava così… che allora le avevo creduto perché avevo appena visto la casa con i miei occhi e che la sua vista e la consapevolezza della presenza di quella gente aveva portato il suo peso alla mia convinzione.

Si dice che sia stato Padre Inire a far costruire il Giardino Botanico. Era possibile che una qualche parte della conoscenza che egli possedeva fosse condivisa dall’anacoreta? Inoltre, sempre Padre Inire aveva costruito la stanza segreta che sembrava una pittura, nella Casa Assoluta. Io l’avevo scoperta per caso, ma solo perché avevo seguito le istruzioni del vecchio pulitore di quadri, che aveva inteso farmela trovare. Adesso non stavo più seguendo le istruzioni di Mannea.

Ritornai sui miei passi lungo la spalla della collina e su per il lieve pendio. L’erta altura che ricordavo precipitò davanti a me, ed alla sua base scorreva vorticoso uno stretto corso d’acqua il cui canto riempiva l’angusta vallata. La posizione del sole indicava che mi rimanevano al massimo due turni di guardia di luce, ma con quel chiarore era più facile discendere l’altura di quanto fosse stato risalirla. In meno di un turno di guardia arrivai giù nella stretta vallata, dove mi ero trovato la sera precedente. Non potevo scorgere alcuna lampada alle finestre, ma l’Ultima Casa si trovava là dove l’avevo vista, poggiata sulla roccia su cui i miei piedi avevano camminato quel giorno. Scossi il capo, le volsi le spalle e mi servii della luce morente per leggere la mappa che Mannea aveva tracciato per me.

Prima di procedere oltre, desidero chiarire che non sono assolutamente certo che ci fosse qualcosa di soprannaturale in tutto quello che ho descritto. Vidi due volte l’Ultima Casa, ma in entrambe le occasioni la luce era la stessa, quella del tardo crepuscolo o del tramonto. È certo possibile che quanto vidi non fosse altro che una formazione rocciosa, e la finestra illuminata una stella.

Quanto allo scomparire della stretta vallata allorché tentai di raggiungerla da un’altra direzione, non c’è formazione geografica più incline a scomparire alla vista, di una stretta pendenza, perché basta la più leggera asperità del terreno e nasconderla. Per proteggersi dai razziatori, alcune popolazioni autoctone delle pampas arrivano al punto di costruire i loro villaggi in quel modo, dapprima scavando un affossamento il cui fondo può essere raggiunto da una rampa, quindi ricavando nei suoi fianchi le abitazioni e le stalle. Non appena l’erba ha ricoperto la terra scavata via, il che accade molto rapidamente dopo le piogge invernali, si può cavalcare a mezza catena di distanza da un luogo del genere senza notarne l’esistenza.

Ma, anche se avrei potuto essere tanto sciocco, non credo di esserlo stato. Il Maestro Palaemon usava dire che il soprannaturale esiste affinché non dobbiamo sentirci umiliati quando veniamo spaventati dal vento notturno, ma io preferisco credere che ci fosse davvero qualche cosa d’irreale intorno a quella casa. Ed ora lo credo più fermamente di quanto lo credessi allora.

Comunque sia, seguii la mappa che mi era stata data, da quel momento in avanti, e, prima che fossero trascorsi due turni di guardia della notte, mi trovai a risalire un sentiero che portava alla porta dell’Ultima Casa, che si ergeva sulla cima di un’altura simile a quella che ricordavo. Come aveva detto Mannea, il viaggio aveva richiesto esattamente due giorni.

XVI

L’ANACORETA

C’era un portico. Era di poco più alto della pietra su cui sorgeva, ma correva su entrambi i lati della casa ed intorno agli angoli, come quei lunghi portici che talvolta si vedono nelle migliori case di campagna, dove c’è poco da temere ed il proprietario ama sedere al fresco della sera e guardare Urth cadere dietro la Luna. Bussai alla porta, e, poiché nessuno mi rispose, camminai lungo il portico, a destra ed a sinistra, sbirciando attraverso le finestre.

All’interno era troppo scuro perché potessi vedere qualcosa, ma scoprii che il portico aggirava la casa fino all’estremità più lontana dell’altura, dove terminava senza una ringhiera. Bussai ancora, altrettanto infruttuosamente, e mi ero già disteso sul portico per dormire (perché, avendo un tetto sulla testa, mi sembrava un posto migliore di qualsiasi altro avrei potuto trovare fra le rocce là intorno), quando sentii un debole suono di passi.

Da qualche parte, nei piani superiori della casa, c’era un uomo che stava camminando. I suoi passi furono inizialmente lenti, tanto che pensai dovesse trattarsi di un malato o di un vecchio, ma si fecero più rapidi e sicuri man mano che si avvicinavano, cosicché, quando raggiunsero la porta, mi parvero il passo regolare di un uomo determinato, quale poteva essere il comandante di un manipolo o di uno squadrone di cavalleria.

Nel frattempo mi ero rialzato e mi ero spolverato il mantello, rendendomi il più presentabile possibile, eppure ero ben poco preparato a colui che vidi quando la porta si aprì. Portava una candela spessa come il mio polso, e, alla sua luce, contemplai un volto simile a quello degli Hieroduli che avevo incontrato nel castello di Baldanders, salvo per il fatto che si trattava di una faccia umana… In effetti, sentii che, come le facce delle statue nei giardini della Casa Assoluta avevano imitato le facce di esseri come Famulimus, Barbato ed Ossipago, così i volti di quest’ultimi erano solo imitazioni, in un qualche modo alieno, di volti quale quello che stavo vedendo ora. Ho spesso detto, a questo proposito, che io ricordo tutto, e così è; ma, quando tento di tratteggiare quel volto in un modo più preciso di quello ottenuto con queste parole, scopro di non esserne capace. Nessun disegno da me fatto ricorda quel viso in nessun particolare, e posso soltanto dire che le sopracciglia erano folte e diritte e gli occhi infossati e di un azzurro cupo, come quelli di Thecla. La pelle di quell’uomo era delicata come quella di una donna, ma in lui non c’era nulla di femmineo e la barba che gli scendeva fino alla vita era del nero più cupo. La sua tunica sembrava bianca, ma c’era una lucentezza d’arcobaleno dove rifletteva la luce della candela.