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Dove era sorto il lazzaretto, il terreno sembrava essere stato arato da un branco di pazzi, arato e scavato… ed il suo fondo era già divenuto un basso laghetto circondato da alberi infranti.

Fino a quando non scese l’oscurità, camminai avanti e indietro. Stavo cercando qualche traccia dei miei amici ed anche dell’altare che conteneva l’Artiglio. Trovai la mano di un uomo, staccata al polso da un’esplosione: avrebbe potuto appartenere a Melito, o ad Hallvard, oppure all’Asciano o a Winnoc, non avrei saputo dirlo.

Quella notte dormii accanto alla strada. Quando spuntò il giorno, iniziai le mie indagini, e, prima di sera, ero riuscito a localizzare i superstiti, ad una mezza dozzina di leghe dal luogo originale. Passai da un letto all’altro, ma nella maggior parte i feriti erano privi di sensi e con la testa talmente fasciata che non avrei potuto riconoscerli. Era possibile che Ava, Mannea e la Pellegrina che si era seduta su uno sgabello ai piedi del mio letto fossero fra loro, anche se non le trovai.

L’unica donna che riconobbi fu Foila, e questo soltanto perché fu lei a riconoscermi ed a chiamare il mio nome mentre camminavo fra morenti e feriti. Mi avvicinai e tentai d’interrogarla, ma era molto debole e riuscì a dirmi ben poco. L’attacco era giunto senza preavviso, ed aveva fracassato il lazzaretto come un lampo. I suoi ricordi erano tutti riferiti a quanto era accaduto dopo, quando aveva udito le urla che per lungo tempo non avevano attirato nessun soccorritore ed era infine stata tirata fuori da soldati che ne sapevano ben poco di medicina. Promisi che sarei tornato a trovarla, una promessa che non sarei stato in grado di mantenere, e credo lo sapessimo entrambi.

— Ti ricordi quando tutti noi abbiamo raccontato le nostre storie? — mi chiese. — Ci ho pensato.

Risposi che sapevo che lo aveva fatto.

— Voglio dire, mentre ci stavano portando qui. Credo che Melito ed Hallvard e tutti gli altri siano morti. Tu sarai l’unico a ricordare, Severian.

Le assicurai che avrei ricordato sempre.

— Voglio che tu lo dica anche ad altre persone, nei giorni d’inverno o nelle notti in cui non c’è nulla da fare. Ti ricordi le storie?

— La mia terra è la terra dei distanti orizzonti, dell’ampio cielo…

— Sì — annuì, e parve assopirsi.

Ho mantenuto la mia seconda promessa, dapprima copiando le storie sulle pagine bianche che c’erano in fondo al libro marrone, poi riferendole qui, così come le avevo udite in quei lunghi, caldi meriggi.

XIX

GUASACHT

Trascorsi vagabondando i due giorni successivi. Non mi dilungherò molto su di essi perché c’è poco da dire. Suppongo che avrei potuto arruolarmi in parecchie unità, ma ero tutt’altro che sicuro di desiderarlo. Mi sarebbe piaciuto tornare all’Ultima Casa, ma ero troppo orgoglioso per gettarmi ai piedi di Mastro Ash e chiedere la sua carità, ammesso che si potesse ancora trovare lassù Mastro Ash. Mi dissi che avrei occupato con gioia il mio vecchio posto di Littore di Thrax, eppure, se fosse stato possibile, non sono certo che lo avrei fatto. Dormii in zone boscose, come un animale, e presi quel po’ di cibo che riuscii a trovare, anche se era scarso.

Il terzo giorno, scoprii un falcione arrugginito, abbandonato, così pareva, nel corso di qualche campagna dell’anno precedente. Tirai fuori la mia fiaschetta d’olio e la mia mezza pietra per affilare (che avevo conservato insieme all’elsa di Terminus Est quando avevo gettato i suoi resti nell’acqua), ed impiegai un allegro turno di guardia nel pulirlo ed affilarlo. Quando ebbi finito, continuai a camminare, e ben presto raggiunsi una strada.

Adesso che l’efficacia del salvacondotto di Mannea si era dileguata, ero cauto nel mostrarmi più di quanto lo fossi stato nell’andare da Mastro Ash. Mi sembrava però probabile che il soldato morto, risuscitato dall’Artiglio e che ora si faceva chiamare Miles, anche se io sapevo che una parte di lui era Jonas, si fosse unito a qualche gruppo. Se era così, doveva trovarsi sulla strada, o accampato vicino ad essa, se non era addirittura in battaglia, ed io desideravo parlargli. Come Dorcas, egli aveva indugiato per qualche tempo nel paese dei morti; lei vi era rimasta più a lungo, ma speravo che, se lo avessi interrogato prima che fosse trascorso troppo tempo, avrei appreso qualcosa che mi avrebbe permesso… se non di riconquistarla… almeno di rassegnarmi alla sua perdita.

Scoprivo di amarla adesso come non l’avevo mai amata quando viaggiavamo insieme verso Thrax. Allora i miei pensieri erano troppo concentrati su Thecla, ed io avevo continuato a proiettarli dentro di me per raggiungerla. Adesso mi sembrava, forse solo perché lei era stata parte di me per così tanto tempo, di averla finalmente afferrata, in un abbraccio più definitivo di qualsiasi accoppiamento… o piuttosto, che, come il seme maschile genera (se questa è la volontà di Apeiron) un nuovo essere nel corpo femminile, così lei, entrando nella mia bocca, per mia volontà si era unita a quel Severian che doveva creare un uomo nuovo: io, che ancora mi chiamo Severian, ma che sono consapevole delle mie doppie radici.

Non so se avrei potuto apprendere ciò che volevo da Miles-Jonas: non l’ho mai ritrovato, anche se ho perseverato nella sua ricerca da quel giorno ad oggi. Verso metà pomeriggio, ero entrato in una distesa di alberi spezzati, e, di tanto in tanto, oltrepassavo corpi in stato più o meno avanzato di decomposizione. All’inizio, tentai di saccheggiarli come avevo fatto con il corpo di Miles, ma altri erano passati di là prima di me, ed addirittura le fiere erano venute di notte per depredar la carne con i denti aguzzi.

Qualche tempo più tardi, dato che le energie cominciavano a mancarmi, mi soffermai accanto ai resti fumanti di un carro per provviste vuoto. Gli animali da tiro che, a quanto pareva non erano morti da parecchio, giacevano sulla strada, con il conducente bloccato a faccia in giù fra di loro. Mi venne in mente che non sarebbe stata una cosa riprovevole tagliare dai fianchi di quelle bestie la carne che mi serviva per poi portarla in un luogo isolato dove avrei potuto accendere un fuoco. Avevo appena affondato la punta del falcione nel fianco di una delle bestie quando sentii un battito di zoccoli, e, supponendo che appartenessero al destriero di qualche staffetta, mi feci da parte per lasciarlo passare.

Si trattava invece di un uomo basso e tarchiato dall’aria energica su una cavalcatura alta e maltrattata. Nel vedermi, tirò le redini, ma qualcosa nella sua espressione mi disse che non c’era bisogno di fuggire o di combattere. (Se fosse stato necessario, avrei scelto la lotta. Il suo destriero gli sarebbe servito a ben poco fra i monconi di piante ed i tronchi caduti, e, nonostante il suo usbergo e l’elmo cinto d’ottone, credo che sarei riuscito a vincerlo.)

— Chi sei? — chiese, e, quando glielo dissi, aggiunse: — Severian di Nessus, eh? Allora sei civilizzato, almeno in parte, ma hai l’aria di non aver mangiato molto bene.

— Al contrario — ribattei, — di recente ho mangiato meglio di quanto sia mia abitudine. — Non volevo che mi ritenesse indebolito.

— Ma potresti mangiare di più… Non è sangue Asciano quello sulla tua spada. Sei uno schiavone? Un irregolare?

— Certo negli ultimi tempi la mia vita è stata piuttosto irregolare.

— Ma non fai parte di nessuna formazione? — Con stupefacente agilità scese di sella con un volteggio, gettò a terra le redini e si avvicinò a grandi passi. Aveva le gambe leggermente arcuate, ed una di quelle facce che sembrano essere state modellate nell’argilla ed appiattite da cima a fondo prima della cottura, cosicché la fronte ed il mento erano poco pronunciati ma ampi, gli occhi due fessure e la bocca larga. Eppure, mi piacque all’istante per la sua verve e perché si preoccupava così poco di nascondere la sua disonestà.

— Non sono attaccato a nulla ed a nessuno — replicai, — eccetto che ai ricordi.