Il pezzato si mosse e batté la zampa al suolo con impazienza.
— Vengo da una parte della città che forse non hai mai sentito nominare — dissi, — la Cittadella. Là ci sono cannoni che tengono sotto controllo l’intero quartiere, ma non ho mai saputo che fossero stati usati, salvo che per cerimonie. — Continuando a fissare il cielo, m’immaginai quei roteanti pentadattili sopra Nessus, ed un migliaio di lampi, che provenivano non solo dal Barbacane e dalla Grande Fortezza, ma da tutte le torri; e mi chiesi con quali armi avrebbe risposto al fuoco il pentadattilo.
— Vieni via — consigliò Guasacht. — So che è una tentazione stare a guardare se arrivano, ma non serve a nulla.
Lo seguii di nuovo vicino alla sorgente, dove Erblon stava facendo allineare la colonna.
— Non ci sparano neppure contro — osservai. — Eppure devono avere cannoni in quei velivoli.
— Noi siamo pesci troppo piccoli. — Vidi chiaramente che Guasacht desiderava che mi riunissi alla colonna, anche se esitava ad ordinarmelo apertamente.
Da parte mia, potevo sentire la paura serrarmi come uno spettro, con maggior forza intorno alle gambe, ma levando freddi tentacoli fino ai visceri ed arrivando a toccarmi il cuore. Volevo stare in silenzio, ma non riuscivo a smettere di parlare.
— Quando scenderemo sul campo di battaglia… — Credo d’essermelo allora immaginato come il prato rasato del Campo Sanguinario su cui avevo una volta combattuto contro Agilus.
— Quando andremo in battaglia — rise Guasacht, — i nostri cannonieri saranno felici di vederli venirci addosso. — Prima che capissi cosa stava per fare, colpì il pezzato con il piatto della spada e lo fece allontanare al galoppo.
La paura è come una di quelle malattie che sfigurano il volto con piaghe pustolose. Si finisce per aver quasi più paura di essere visti che non della fonte di quelle piaghe, e si arriva a sentirsi non solo disgraziati ma contaminati. Quando il pezzato accennò a rallentare, conficcai i talloni nei suoi fianchi e andai ad allinearmi in coda alla colonna.
Appena poco tempo prima, ero stato sul punto di prendere il posto di Erblon, ma ora ero stato degradato, non da Guasacht, ma da me stesso, alla più infima posizione. Eppure, quando ebbi aiutato a riunire i soldati sparpagliati, la cosa che temevo era già passata; e cosi, l’intero dramma della mia elevazione era stato rappresentato fino in fondo dopo essere terminato con la mia degradazione. Era come se mi fosse capitato di veder oziare nei giardini pubblici un giovane con il petto trapassato da una spada… e poi vederlo, senza essere notato, fare conoscenza con l’avvenente moglie del suo uccisore, ed alla fine, dopo aver appurato che, come pensava, il marito della donna si trovava dall’altra parte della città, stringerla a sé fino a farla gridare per il dolore provocatole dall’elsa della spada che sporgeva dal suo petto.
Quando la colonna prese lentamente ad avanzare, Daria si staccò ed attese fino a che non si poté affiancare a me.
— Tu hai paura — disse, e non era una domanda ma un’affermazione, non un rimprovero ma quasi una parola d’ordine, come le ridicole frasi che avevo appreso al banchetto di Vodalus.
— Sì. Hai intenzione di rammentarmi la mia vanteria di quel giorno nella foresta. Posso solo dire che non sapevo che fosse una vacua vanteria quando l’ho pronunciata. Un certo saggio ha tentato un tempo d’insegnarmi che anche dopo che un cliente è riuscito a controllare una sofferenza, in modo da poterla tenere lontana dalla mente mentre grida e si contorce, un’altra sofferenza del tutto differente può essere altrettanto efficace nello spezzare la sua volontà quanto nello spezzare quella di un bambino. Ho imparato a spiegare tutto questo quando mi veniva richiesto, ma mai, fino ad ora, ad applicarlo, come avrei dovuto, alla mia stessa vita. Ma se io sono il cliente qui, chi è il torturatore?
— Abbiamo tutti più o meno paura — mi spiegò. — È per questo… sì, ho visto… che Guasacht ti ha mandato via, per impedirti di rendere peggiori i suoi sentimenti. Se fossero peggiorati, non sarebbe riuscito a guidarci. Quando verrà il momento, farai quello che dovrai fare, e questo è quanto farà ognuno di loro.
— Non sarebbe meglio che andassimo? — chiesi. La coda della colonna si stava allontanando in quel modo agitato in cui si muove sempre l’estremità di una lunga linea.
— Se ci muoviamo adesso, molti di loro capiranno che siamo indietro perché abbiamo paura. Se aspettiamo ancora un po’ molti di quelli che ti hanno visto parlare con Guasacht penseranno che tu sia stato mandato qui per affrettare i ritardatari, e che io sono venuta per stare con te.
— Va bene — risposi.
La sua mano, umida di sudore e minuta come quella di Dorcas, scivolò nella mia. Fino a quel momento, mi ero sentito certo che Daria avesse già combattuto in passato, ma ora le chiesi:
— È la prima volta anche per te?
— So combattere meglio della maggior parte degli uomini — mi rispose, — e sono stanca di essere definita una sgualdrina.
Insieme, trottammo dietro la colonna.
XXII
LA BATTAGLIA
Li scorsi dapprima come una serie di punti colorati sparsi sul lato più lontano dell’ampia vallata, spadaccini che sembravano muoversi e mescolarsi, come fanno le bolle che danzano sulla superficie di un boccale di sidro. Stavamo trottando attraverso un boschetto di alberi distrutti, il cui legno nudo e bianco assomigliava all’osso vivo di una frattura composta. Adesso la nostra colonna si era notevolmente ingrossata, e comprendeva forse l’intero contingente dei contarii irregolari. Eravamo sotto il fuoco nemico, in modo più o meno incostante, da circa mezzo turno di guardia, ed alcuni soldati erano stati feriti (uno, vicino a me, in modo molto serio) e parecchi altri uccisi. I feriti si curavano da soli e tentavano di aiutarsi a vicenda… se c’era assistenza medica, si trovava troppo indietro rispetto a noi perché potessi esserne consapevole.
Di tanto in tanto, superavamo alcuni cadaveri sparsi fra gli alberi; di solito erano raggruppati in mucchietti di due o tre, ma talvolta si trattava anche di individui isolati. Ne vidi uno che, al momento della morte, era riuscito ad impigliarsi con il colletto della giacca nello spuntone di un tronco spezzato, e rimasi colpito dall’orrore della sua situazione, dal fatto che fosse morto, eppure impossibilitato a riposare, e poi dal pensiero che quella era anche la situazione di tutte le migliaia di alberi che erano stati uccisi ma non potevano cadere.
Quasi nello stesso tempo in cui mi rendevo conto della presenza del nemico, mi accorsi anche che c’erano truppe del nostro esercito su entrambi i lati. Alla nostra destra notai una mescolanza di cavalieri e fanteria, ed i cavalieri erano privi di elmetto ed avevano il petto nudo ed abbronzato, sul quale era appeso un rotolo di coperte rosse o azzurre. Essi avevano, pensai, cavalcature migliori di quelle della maggior parte di noi. Erano armati di lance poco più lunghe dell’altezza di un uomo, e molti le tenevano appoggiate di traverso sulla sella. Ognuno aveva un piccolo scudo di rame assicurato alla parte superiore del braccio sinistro. Non avevo idea da che parte della Repubblica potessero venire quegli uomini, ma per qualche ragione, forse a cause dei loro lunghi capelli e dei petti nudi, mi sentii certo che fossero selvaggi.
Se lo erano, la fanteria che si muoveva fra loro apparteneva ad un livello di civiltà ancora più basso: esseri scuri di pelle, curvi e dai capelli incolti. Riuscii ad intravederli solo saltuariamente fra gli alberi spezzati, ma ebbi l’impressione che talvolta si lasciassero cadere a quattro zampe. Di tanto in tanto, qualcuno sembrava aggrapparsi alla staffa di un cavaliere, come io avevo talvolta afferrato quella di Jonas quando questi cavalcava il suo merichippo. Ogni volta che ciò accadeva, il cavaliere colpiva la mano del compagno con l’impugnatura della lancia.