Ci liberammo dalla stretta nemica come avevano fatto i cherkajis; il quadrato era stato intaccato ma non distrutto, e, mentre davamo alle nostre cavalcature il tempo di riprendere fiato, esso si ricostituì, con i leggeri scudi lucidi davanti… Un lancere si staccò dalle file dei suoi e si mise a correre verso di noi. All’inizio, pensai che fosse soltanto una bravata, poi (man mano che si avvicinava, poiché un uomo normale corre molto meno in fretta di un destriero), che desiderasse arrendersi. Alla fine, quando aveva quasi raggiunto le nostre file, l’uomo fece fuoco con la sua lancia, ed un soldato lo abbatté. Nelle convulsioni della morte, l’uomo gettò in aria la sua lancia fiammeggiante, e ricordo come essa si agitò nel cielo blu cupo.
— Stai sanguinando molto — osservò Guasacht, avvicinandosi al trotto. — Potrai cavalcare quando caricheremo ancora?
Mi sentivo forte come lo ero sempre stato in vita mia e glielo dissi.
— Comunque, farai meglio a bendare quella gamba.
La pelle bruciata si era spaccata e ne stava scaturendo il sangue; Daria, che non aveva ricevuto alcuna ferita, la fasciò.
La carica per cui mi ero preparato non ebbe mai luogo. Del tutto inaspettato, (almeno per quanto mi riguardava), giunse l’ordine di fare dietro front, e ci avviammo al trotto verso nord est sull’aperta pianura ricca d’erba incolta.
I selvaggi sembravano essere svaniti, ed una nuova forza aveva preso il loro posto, sul fianco che era adesso diventato il nostro fronte. All’inizio, pensai che fossero cavalieri in sella a centauri, quelle mitiche creature di cui avevo visto i disegni sul libro marrone. Potevo scorgere le teste e le spalle dei cavalieri al di sopra delle teste umane delle loro cavalcature, ed entrambi sembravano essere armati. Quando si fecero più vicini, notai che non si trattava di nulla di così romantico, ma semplicemente di piccoli uomini… nani, in realtà, sulle spalle di altri uomini molto alti.
Le nostre direzioni di avanzata erano quasi parallele, ma destinate a convergere gradualmente. I nani ci osservavano con quella che sembrava essere una cupa attenzione, mentre gli uomini alti non ci guardavano affatto. Alla fine, quando la nostra colonna giunse a non più di un paio di catene dalla loro, ci arrestammo e ci girammo per fronteggiarli. Con un senso di orrore mai provato prima, mi resi conto che quegli strani cavalieri e quegli strani destrieri erano Asciani; la nostra manovra era stata decisa per impedire loro di prendere i pestalti di fianco, ed aveva avuto successo in quanto adesso essi avrebbero dovuto oltrepassare la nostra colonna, se ci fossero riusciti, per poter sferrare il loro attacco. Sembravano essere all’incirca cinquemila, tuttavia, ed erano certo molto più di quanti noi fossimo in condizioni di respingere.
Eppure, non venne nessun attacco. Ci arrestammo e formammo una stretta linea, staffa contro staffa. Nonostante il loro numero, essi si spostarono su e giù davanti alla nostra linea, come se stessero pensando dapprima di superarci sulla destra e poi sulla sinistra e poi ancora sulla destra. Era comunque evidente che non sarebbero potuti passare in alcun modo, a meno che una parte delle loro forze non avesse impegnato il nostro fronte per impedirci di attaccare gli altri alle spalle. Quasi con la speranza di rimandare così lo scontro, noi non facemmo fuoco.
Assistemmo adesso a ripetizioni del comportamento del lancere isolato che aveva lasciato il suo quadrato per attaccarci. Uno degli uomini alti saettò in avanti; in una mano teneva un sottile bastone, poco più di una verga, nell’altra una spada del tipo chiamato shotel, che ha una lama molto lunga ed affilata da entrambi i lati, e la cui metà anteriore è curvata a semicerchio. Mentre si avvicinava, l’uomo rallentò il passo e notai che i suoi occhi erano sfuocati, e che in effetti era addirittura cieco. Il nano sulle sue spalle incoccò una freccia in un corto arco ricurvo.
Quando quei due arrivarono ad una mezza catena di distanza da noi, Erblon diede a due uomini l’incarico di allontanarli. Prima che i due uomini si potessero avvicinare, l’uomo cieco si mise a correre veloce come un destriero ma con passo stranamente silenzioso, diretto contro di noi. Otto o dieci soldati fecero fuoco, ma vidi quanto fosse difficile colpire un bersaglio che si muoveva a quella velocità. La freccia partì e s’incendiò di una luce arancione. Un soldato tentò di parare la verga dell’uomo cieco… lo shotel si abbassò lampeggiando e la sua lama ricurva spaccò il cranio del soldato.
Allora un gruppo di tre uomini ciechi con i loro cavalieri si staccò dalla massa del nemico, e, prima ancora che ci avessero raggiunti, ne partirono altri, in gruppetti di cinque o sei. Dall’estremità della linea, il nostro ipparco sollevò un braccio; Guasacht ci fece cenno di avanzare ed Erblon suonò la carica, che riecheggiò a destra ed a sinistra, una nota muggente che sembrava contenere un cupo suono di campane.
Anche se allora non lo sapevo, è assiomatico che scontri fra forze puramente di cavalleria degenerino quasi subito in semplici duelli isolati. Così accadde nel nostro caso. Cavalcammo verso di loro, e, anche se nel fare così perdemmo venti o trenta dei nostri, ne attraversammo le linee. Immediatamente, ci voltammo per attaccare ancora, sia per impedire ai nemici di assalire i peltasti, sia per tornare in contatto con il nostro esercito. Essi, a loro volta, si volsero per fronteggiarci, e, in breve tempo, né noi né loro avemmo più qualcosa che si potesse definire un fronte, o altre tattiche oltre quelle che ciascun combattente applicava a se stesso.
La mia tattica era quella di girare alla larga da qualsiasi nano che apparisse sul punto di tirare una freccia, assalendone invece altri alle spalle o lateralmente. Quel metodo funzionava abbastanza bene quando ero in grado di applicarlo, ma ben presto scoprii che, per quanto i nani apparissero decisamente impotenti quando gli alti uomini che cavalcavano venivano uccisi, quegli alti destrieri, se privati dei loro cavalieri, parevano invece impazzire, ed attaccavano con frenetica energia qualsiasi cosa sbarrasse loro il passo, divenendo quindi ancor più pericolosi.
Molto presto, le frecce dei nani ed i colpi dei nostri conti accesero innumerevoli fuochi nell’erba, ed il fumo soffocante rese ancora peggiore la situazione. Avevo perso di vista Daria e Guasacht… tutti quelli che conoscevo… già da qualche tempo. Attraverso quella grigia cortina riuscii a stento ad intravedere una figura su un alto destriero che combatteva contro quattro Asciani. La raggiunsi, e, sebbene uno dei nani facesse girare il suo cieco destriero e lanciasse una freccia che mi sfiorò, sibilando, l’orecchio, riuscii a calpestarli e sentii le ossa dell’uomo cieco frantumarsi sotto le zampe del mio pezzato. Una figura pelosa sorse dall’erba fumante alle spalle degli altri due e li abbatté come un peone abbatte un albero… con tre o quattro colpi della sua ascia sferrati sempre nello stesso punto fino a che l’uomo cieco non cadde.
Il soldato a cavallo al cui soccorso ero venuto non apparteneva alle nostre truppe, ma era uno dei selvaggi che si trovavano in precedenza alla nostra destra. Era stato ferito, e, quando vidi il suo sangue, rammentai che anch’io ero ferito: la mia gamba era rigida, le mie forze quasi svanite, e sarei tornato verso la cresta meridionale della vallata e verso le nostre linee se avessi saputo da che parte andare. Così come stavano le cose, diedi carta libera al pezzato e lo sferzai con le redini, avendo sentito dire che quegli animali tornavano sovente nell’ultimo posto in cui si erano abbeverati ed avevano riposato. L’animale si lanciò in un trotto che divenne ben presto un galoppo. Una volta saltò, sbalzandomi quasi di sella, e vidi un destriero abbattuto, con Erblon morto accanto ad esso, la tromba di ottone e la bandiera nera e verde abbandonate sull’erba in fiamme. Avrei voluto far voltare il pezzato per tornare a prenderle, ma, quando finalmente lo feci fermare, non riuscii più a ritrovare il punto giusto. Alla mia destra, una linea di cavalieri appariva in mezzo al fumo, scura e quasi informe, ma serrata. Molto più indietro, alle sue spalle, incombeva una macchina che emetteva fuoco, una macchina che sembrava una torre mobile.