— Ne avevo una sola, e stava bene, l’ultima volta che l’ho vista.
— Conservi il tuo interesse per le donne. — I suoi denti lampeggiarono alla luce della luna. — Si tratta di Dorcas, quella di cui mi hai parlato?
— No. Non ha importanza. — Non sapevo esattamente in che modo formulare ciò che desideravo chiedere (è la peggiore manifestazione di cattive maniere far capire ad una persona di aver scoperto chi egli sia nonostante l’incognito di cui si circonda). Alla fine, riuscii a dire: — Posso vedere che occupi una elevata posizione nella nostra Repubblica. Se questo non mi costringerà a finire giù dalla schiena di questa bestia, puoi spiegarmi cosa mai poteva fare alla direzione di quel luogo nel Quartiere Algedonico uno che ha il comando delle legioni?
Mentre parlavo, la notte era divenuta considerevolmente più cupa, e le stelle si erano spente una dopo l’altra, come le luci in una sala dove il ballo è finito e gli inservienti vanno in giro a spegnere le candele con smoccolatoi simili a mitre d’oro appese a pali sottili. Ad una grande distanza, sentii l’androgino rispondere:
— Tu sai chi noi siamo. Noi siamo la Repubblica stessa, il governante di se stesso, l’Autarca. Noi sappiamo di più. Noi sappiamo chi sei tu.
Mi rendo conto adesso che il Maestro Malrubius era stato molto malato prima di morire. A quell’epoca io non lo sapevo perché il pensiero della malattia mi era estraneo. Almeno la metà dei nostri apprendisti, o forse più della metà, moriva prima di essere elevata ad artigiano, ma non mi era mai passato per la mente che la nostra torre potesse essere un ambiente malsano, oppure che le acqua basse del Gyoll, dove nuotavamo spesso, fossero poco più pulite di una fogna. Gli apprendisti morivano da sempre, e, quando noi apprendisti vivi scavavamo le loro tombe, venivano alla luce piccoli ossi pelvici e teschi che noi, la generazione successiva, tornavamo a seppellire ancora e poi ancora, fino a che non erano talmente danneggiati dalla vanga che le loro parti calcaree si mescolavano al suolo. Quanto a me, non avevo mai sofferto di nulla di più grave di un mal di gola o di un raffreddore, forme di malattia che servono soltanto ad ingannare la gente sana facendo credere che si sa cosa sia una malattia. Il Maestro Malrubius aveva sofferto di una vera malattia, che consisteva nel vedere la morte in ogni ombra.
Quando sedeva al suo piccolo tavolo, si aveva l’impressione che fosse consapevole della presenza di qualcuno in piedi alle sue spalle. Guardava sempre dritto davanti a sé, senza mai girare la testa e muovendo appena le spalle, e parlava altrettanto per quello sconosciuto ascoltatore quanto per noi.
— Io ho fatto del mio meglio per insegnare a voi ragazzi i rudimenti del sapere. Questi sono i semi degli alberi che dovrebbero crescere e fiorire nelle vostre menti. Severian, stai attento alla tua Q: dovrebbe essere rotonda e piena come la faccia di un ragazzo allegro, mentre una delle sue guance è incavata come le tue. Avete visto voi tutti, ragazzi, come la spina dorsale, sollevandosi verso il suo culmine, si espanda ed infine fiorisca nella miriade di sentieri del cervello. E questo qui, una guancia rotonda, l’altra disseccata e rattrappita.
Le sue mani tremanti si erano allungate verso la matita, ma essa gli era sfuggita dalle dita ed era rotolata oltre il bordo del tavolo, cadendo sul pavimento. Non si era chinato a raccoglierla, timoroso, credo, di poter scorgere quell’invisibile presenza se lo avesse fatto.
— Ho trascorso gran parte della mia vita, ragazzi, cercando di piantare quei semi negli apprendisti della corporazione. Ho avuto alcuni successi, ma non molti. C’era un ragazzo, ma lui…
Si avvicinò all’oblò e sputò fuori, e, poiché ero seduto vicino ad esso, notai le forme contorte formate dal sangue filtrante e compresi che la ragione per cui non potevo vedere la figura nera (perché la morte è di un colore ancora più scuro della fuliggine) che lo accompagnava, era che essa si trovava dentro di lui.
Come avevo scoperto che la morte presentata in una nuova forma, quella della guerra, mi poteva spaventare quando non era più in grado di farlo sotto le sue vecchie spoglie, così appresi ora che la debolezza del mio corpo mi poteva affliggere con lo stesso terrore e la stessa disperazione che doveva aver provato il mio antico insegnante. Ero cosciente solo a tratti.
La consapevolezza andava e veniva come i venti erranti di primavera, ed io, che ho tanto spesso avuto difficoltà ad addormentarmi fra le ombre dei ricordi che mi assediavano, lottai ora per rimanere sveglio così come un bambino lotta per far sollevare un acquilone legato al filo. Talvolta, ero dimentico di tutto tranne che del mio corpo ferito. La ferita alla gamba, che avevo avvertito appena quando mi era stata inferta, e la cui sofferenza avevo allontanato così facilmente quando Daria l’aveva bendata, mi pulsava dentro con un’intensità che faceva da sfondo a tutti i miei pensieri, come il rombare della Torre del Tamburo al solstizio. Mi voltavo da un lato all’altro, avendo sempre l’impressione di essere appoggiato su quella gamba.
Sentivo senza vedere, e talvolta vedevo senza sentire. Feci rotolare la guancia dal pelo di Mamillian e la posai su un cuscino imbottito con le piccole e soffici piume d’uccello.
Una volta vidi torce con scarlatte e dorate fiamme danzanti rette da scimmie solenni. Un uomo con le corna ed il muso di un toro si chinò su di me, una costellazione sbocciata alla vita. Gli parlai e mi trovai a dirgli che non ero certo della precisa data della mia nascita, e che se il suo benigno spirito fatto di sincera forza e di spazi aperti aveva governato la mia vita, lo ringraziavo per questo; poi rammentai che conoscevo quella data e che mio padre aveva dato un ballo per me ogni anno fino alla sua morte: cadeva sotto il segno del Cigno. L’uomo ascoltò attentamente, voltando il capo per fissarmi con un occhio marrone.
XXIV
IL VELIVOLO
La luce del sole mi batteva sul volto.
Tentai di sedermi e mi riuscì di sollevarmi su un gomito. Tutt’intorno a me splendeva una sfera di colori… porpora, rubino, azzurro, con l’orpimento del sole che penetrava quelle tinte incantate come una spada, per cadere poi sui miei occhi. Infine, la luce venne coperta, e la sua mancanza rivelò ciò che il suo splendore aveva oscurato: giacevo in un padiglione a cupola di seta variegata, con la porta aperta.
Il padrone del mammoth stava camminando verso di me. Era avvolto in una tunica color zafferano, come sempre, e portava un bastone d’ebano troppo leggero perché potesse essere un’arma.
— Ti sei ripreso — osservò.
— Tenterei di rispondere di sì, ma temo che lo sforzo di parlare mi potrebbe uccidere.
A quelle parole, l’uomo sorrise, anche se il suo sorriso non era nulla di più di una smorfia della bocca.
— Come tu dovresti sapere quasi meglio di chiunque altro, le sofferenze che sopportiamo in questa vita renderanno possibili tutti i felici crimini e le piacevoli abominazioni che commetteremo nella prossima… non sei ansioso di riscuotere?
Scossi il capo e mi riadagiai sul cuscino, morbido e vagamente odoroso di muschio.
— Questo è un bene, perché ci vorrà qualche tempo prima che tu possa farlo.
— È quel che dice il tuo medico?
— Io, sono il mio medico, e ti ho curato personalmente. Il problema principale era lo shock… Al suono, sembra una malattia per vecchiette, come starai senza dubbio pensando ora. Ma uccide una gran quantità di uomini che siano rimasti feriti. Se tutti i miei soldati che muoiono per causa dello shock potessero vivere, sarei pronto ad acconsentire alla morte di coloro che vengono colpiti al cuore.
— Mentre agivi come tuo medico… e mio… dicevi la verità?
— Lo faccio sempre — replicò con un ampio sorriso. — Nella mia posizione, devo parlare troppo perché possa tenere sotto controllo una sfilza di bugie; naturalmente ti devi rendere conto che la verità… le piccole e normali verità di cui parlano le donnette di campagna, non l’estrema ed universale Verità, che io non sono più capace di te di esprimere… quella verità è più ingannevole.