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— Noi non gli facciamo male, Legione — protestò una di esse, con una voce quale non avevo mai udito prima.

— Mettetelo giù, ho detto!

— Non mi hanno neppure intaccato la pelle, Sieur — lo rassicurai.

Con il sostegno delle donne-gatto, mi riuscì di camminare. Era mattino, quando tutte le ombre fuggono la prima vista del sole. La luce che mi aveva svegliato era quella dei primi raggi del nuovo giorno. La freschezza dell’aria riempiva ora i polmoni, e la ruvida erba su cui camminavamo mi bagnava i vecchi stivali con la sua rugiada; una brezza debole come le stelle evanescenti mi agitava i capelli.

Il padiglione dell’Autarca sorgeva in cima ad una collina. Tutt’intorno bivaccava il corpo principale del suo esercito… tende nere e grige, altre simili a foglie morte; casupole di terra e fosse che portavano a rifugi sotterranei da cui scaturivano ora sciami di soldati simili a formiche argentee.

— Dobbiamo stare attenti, vedi — mi spiegò. — Anche se ci troviamo ad una certa distanza dietro le nostre linee, se questo punto fosse più pianeggiante provocherebbe un attacco dall’alto.

— Mi ero chiesto spesso perché la tua Casa Assoluta giacesse sotto i suoi giardini, Sieur.

— La necessità della cosa è cessata ormai da molto, ma c’è stato un tempo in cui essi hanno seminato rovine in Nessus.

Sotto e tutt’intorno a noi risuonarono gli squilli delle trombe d’argento.

— È passata solo la notte — chiesi, — oppure ho trascorso un intero giorno dormendo?

— No, solo la notte. Ti ho somministrato alcune medicine per diminuire il dolore e per evitare che la ferita s’infettasse. Non ti avrei svegliato stamattina, ma ho visto che ti eri già destato ed allora sono entrato… e non c’è più tempo.

Non ero certo di cosa intendesse dire con quelle parole. Prima che potessi chiederlo, vidi sei uomini seminudi attaccati ad una corda. La mia prima impressione fu che stessero tirando giù una sorta di grosso pallone, ma si trattava di un velivolo, e la vista dello scafo nero mi richiamò alla mente vividi ricordi della corte dell’Autarca.

— Mi aspettavo… com’è che si chiama?… Mamillian.

— Niente animali, oggi. Mamillian è un compagno eccellente, silenzioso e saggio e capace di combattere con una mente indipendente dalla mia, ma, una volta detto tutto questo, lo cavalco solo per piacere. Oggi ruberemo una freccia dall’arco degli Asciani ed useremo una macchina. Essi ne rubano molte dal nostro.

— È vero che questo consuma la loro possibilità di atterrare? Credo che me lo abbia detto una volta uno dei tuoi aeronauti.

— Quando eri la Castellana Thecla, vuoi dire. Thecla soltanto.

— Sì, naturalmente. Sarebbe poco politico, Autarca, chiederti perché mi hai fatta uccidere? E come fai a riconoscermi ora?

— Ti riconosco perché vedo il tuo volto in quello del mio giovane amico e sento la tua voce nella sua. Le tue cameriere ti riconoscono anch’esse: guardale.

Obbedii, e vidi i volti delle donne-gatto contratti in smorfie di paura e stupore.

— Quanto al perché sei morta, parlerò di questo… a lui… sul velivolo… ne abbiamo il tempo. Ora, fatti indietro. Riesci a manifestarti facilmente perché egli è debole e malato, ma adesso ho bisogno di lui, non di te. Se non te ne andrai, ho i mezzi per obbligarti…

— Sieur…

— Sì, Severian? Hai paura? Sei mai stato su una cosa simile, prima?

— No — risposi, — ma non ho paura.

— Ti ricordi la tua domanda circa la sua potenza? È vero, in un certo senso. Il sollevamento è determinato da una sostanza antimateria equivalente al ferro, tenuta in trappola da campi magnetici. Dal momento che quell’anti-ferro ha una struttura magnetica inversa, viene respinto da un magnetismo positivo. I costruttori di questo velivolo lo hanno circondato di magneti, cosicché quando si sposta dalla sua posizione centrale, entra in un campo più forte e viene respinto. Su un mondo di antimateria, quel ferro peserebbe quanto un macigno, ma qui su Urth fa da contrappeso alla materia usata nella costruzione del velivolo. Mi segui?

— Credo di sì, Sieur.

— Il problema è che va al di là della nostra tecnologia il riuscire a sigillare ermeticamente le camere. Un po’ di atmosfera… qualche molecola… penetra sempre fra le porosità delle saldature o nell’isolamento dei campi magnetici. Ciascuna di queste molecole neutralizza l’equivalente in anti-ferro e produce calore, e, ogni volta, il velivolo perde un’infinitesima parte della sua capacità di sollevarsi. L’unica soluzione trovata è quella di tenere i velivoli il più in alto possibile, dove non c’è in effetti la minima pressione atmosferica.

Il muso del velivolo si stava abbassando, ed era abbastanza vicino perché potessi apprezzare la bella snellezza delle sue linee: aveva esattamente la forma di una foglia di ciliegio.

— Non ho capito proprio tutto — dissi, — ma penso che le corde dovrebbero essere immensamente lunghe per permettere al velivolo di fluttuare ad una conveniente altitudine, e, se i pentadattili Asciani arrivassero di notte, potrebbero tagliarle e far andare via i velivoli.

Le donne-gatto sorrisero a quelle parole con piccoli, riservati arricciarsi delle labbra.

— La corda serve solo all’atterraggio. Senza di essa, il velivolo avrebbe bisogno di un certo spazio perché la sua propulsione anteriore lo facesse scendere. Adesso, sapendo che siamo qui sotto, cala il suo cavo come un uomo in un lago stenderebbe la mano verso qualcuno che lo può tirare fuori. Ha una sua mente, vedi? Non come quella di Mamillian… una mente che noi gli abbiamo costruito, ma sufficiente a permettergli di star fuori dai guai e di venire giù quando riceve il segnale.

La metà inferiore del velicolo era di un nero opaco e metallico, la metà superiore una cupola così chiara da risultare quasi invisibile… la stessa sostanza, suppongo, di cui era fatto il tetto del Giardino Botanico. Un cannone come quello montato in groppa al mammoth, sporgeva da prua ed un altro, due volte più grosso, da poppa.

L’Autarca sollevò una mano all’altezza della bocca e parve sussurrare nel palmo di essa. Un’apertura apparve nella cupola (era come se in una bolla di sapone si fosse aperto un buco), ed una fila di scalini argentei, sottili e privi di sostanza tanto da sembrare fatti di ragnatela, discese verso di noi. Gli uomini dal petto nudo avevano smesso di tirare.

— Puoi salire quei gradini? — chiese l’Autarca.

— Se posso usare le mani, sì.

Andò davanti a me ed io strisciai ignomignosamente dietro di lui, trascinando la gamba ferita. I sedili, lunghe panche che seguivano la curvatura dello scafo su entrambi i lati, erano rivestiti di pelliccia, ma anche quella pelliccia sembrava più fredda del ghiaccio. Dietro di me, l’apertura si assottigliò e svanì.

— Qui avremo una pressione equivalente a quella della superficie, non importa quanto saliremo. Non temere di soffocare.

— Ritengo di essere troppo ignorante per avere paura, Sieur.