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— Noi ti abbiamo già detto che è nostra intenzione riformare la corporazione, non distruggerla, e non siamo neppure certi di avere la competenza necessaria per farlo. Tu ci rispetti perché siamo ascesi alla posizione più elevata, ma noi l’abbiamo raggiunta per caso, e ne siamo consapevoli. Anche il nostro predecessore l’aveva raggiunta per caso, e le menti che egli ha portato in eredità a noi e che noi tocchiamo debolmente anche ora, non erano, con una o due eccezioni, menti di genii. Per lo più, si tratta di uomini e donne comuni, artigiani e marinai, massaie e donne dissolute. La maggior parte degli altri è costituita da eccentrici studiosi di scarso rilievo, del tipo di cui Thecla era solita ridere.

— Tu non sei semplicemente salito alla posizione più alta — ribatté il Maestro Palaemon, — lo sei diventato: tu sei lo Stato.

— Noi non lo siamo. Lo Stato sono tutti gli altri… tu, il castellano, quegli ufficiali là fuori. Noi siamo la gente, la Repubblica. — Non ne ero consapevole io stesso fino a che non parlai.

— Conserveremo questo — soggiunsi, prendendo il libro marrone. — Esso era una delle cose buone, come la spada. La stesura dei libri sarà nuovamente incoraggiata. Non ci sono tasche in questi abiti, ma forse sarà un bene se saremo visti tenere un libro in mano quando andremo via.

— Portare un libro dove? — Il Maestro Palaemon reclinò la testa come un vecchio corvo.

— Alla Casa Assoluta. Siamo stati privi di contatti, o meglio, l’Autarca lo è stato, se vuoi metterla così, per più di un mese. Dobbiamo scoprire cosa sta succedendo al fronte e forse inviare rinforzi. — Pensai a Lomer, a Nicarete ed agli altri prigionieri nell’Anticamera, ed aggiunsi: — Abbiamo anche altri compiti da svolgere là.

— Prima che tu vada, Severian… Autarca… — Il Maestro Palaemon si massaggiò il mento, — non vorresti fare un giro delle celle in memoria dei vecchi tempi? Dubito che quella gente là fuori sappia della porta che si apre sulle scale ovest.

Quella scala è meno usata e forse più antica della torre. Certo, è quella che è meno cambiata dalla sua condizione iniziale: i gradini sono stretti e ripidi e girano intorno ad una colonna centrale, nera per la corrosione. La porta della stanza in cui io, come Thecla, ero stato assoggettato al congegno chiamato il Rivoluzionario, era incastrata in modo che rimaneva socchiusa, cosicché, sebbene non entrassimo, vidi ugualmente l’antico congegno, spaventoso, eppure meno orribile dei macchinari lucenti e molto più antichi della torre di Baldanders.

Ogni cosa nella segreta significava un ritorno a qualcosa che io avevo ritenuto perduta per sempre dal giorno in cui ero partito per Thrax, eppure i corridoi metallici erano immutati, con le loro lunghe file di porte, e, quando sbirciai attraverso le minuscole finestrelle che si aprivano in esse, vidi i volti familiari di uomini e donne che avevo nutrito e sorvegliato quando ero un artigiano.

— Sei pallido, Autarca — osservò il Maestro Palaemon, — e sento la tua mano che trema. — Lo stavo sostenendo leggermente, una mano appoggiata al suo braccio.

— Sai che i nostri ricordi non svaniscono mai — replicai. — Per noi, la Castellana Thecla siede ancora in una di queste celle, e l’artigiano Severian in un’altra.

— Avevo dimenticato. Sì, deve essere terribile per te. Avevo intenzione di condurti all’antica cella della Castellana, ma forse preferiresti non vederla.

Insistetti per visitarla, ma, quando vi arrivammo, all’interno vi era un nuovo cliente, e la porta non era chiusa a chiave. Feci in modo che il Maestro Palaemon convocasse un fratello di guardia e ci facesse entrare, poi sostai per un momento, osservando il piccolo letto ed il tavolino. Infine, notai il cliente, che sedeva nell’unica cella, gli occhi dilatati ed un’indescrivibile espressione, mista di speranza e stupore, dipinta sul viso. Gli chiesi se mi conosceva.

— No, esultante.

— Noi non siamo un esultante, noi siamo il tuo Autarca. Perché sei qui?

L’uomo si alzò, poi cadde in ginocchio.

— Sono innocente, credimi!

— D’accordo — replicai, — ti crediamo, ma vogliamo che tu ci dica di che cosa sei stato accusato e come mai sei stato condannato.

Con voce acuta, l’uomo si lanciò in uno dei racconti più complessi e confusi che abbia mai udito. Sua cognata e la madre di questa avevano cospirato contro di lui. Avevano dichiarato che aveva colpito la moglie, che l’aveva trascurata quando era malata e che le aveva rubato una certa somma di denaro che il padre le aveva affidato, per scopi su cui loro non erano d’accordo. Nello spiegare tutto questo (e molte altre cose), l’uomo si vantò della propria intelligenza, denunciando al tempo stesso le frodi, i trucchi e le menzogne di coloro che lo avevano mandato nelle segrete. Precisò che il denaro in questione non era mai esistito, ed anche che sua suocera ne aveva una usato una parte per corrompere il giudice. Affermò di non essere stato al corrente della malattia della moglie, ma disse anche di averle procurato il miglior medico che poteva permettersi.

Quando lo lasciai, passai alla cella successiva, ed ascoltai il cliente rinchiuso in essa, poi passai alla successiva e così via, fino a quando non ne ebbi visitati dodici. Undici clienti avevano protestato la loro innocenza, alcuni meglio ed altri anche peggio del primo. Tre ammisero invece di essere colpevoli (anche se uno di essi giurò, ed io gli credo, in tutta sincerità, che anche se aveva commesso la maggior parte dei crimini di cui era accusato, era stato anche incriminato di parecchie colpe che non aveva commesso). Due di quegli uomini promisero solennemente che non avrebbero fatto più nulla che potesse riportarli nelle segrete se solo li avessero rilasciati, cosa che feci. La terza era una donna che aveva rapito alcuni bambini e li aveva costretti a fungere da mobilio in una stanza destinata a quello scopo, arrivando in un caso ad inchiodare le mani di una ragazzina alla superficie di legno di un tavolino in modo che fungesse da piedestallo vivente. Ella mi confessò con eguale franchezza che si sentiva certa che sarebbe tornata al suo divertimento, come lo chiamava, perché quella era la sola attività che le interessava veramente. Non chiese di essere liberata, ma solo che la sentenza fosse commutata in semplice prigionia. Mi sentii certo che fosse pazza, eppure nella sua conversazione o nei suoi limpidi occhi azzurri non c’era nulla che lo indicasse, ed ella mi disse che era stata esaminata prima del processo e giudicata sana di mente. Le toccai la fronte con il Nuovo Artiglio, ma esso rimase inerte come il vecchio Artiglio quando avevo tentato di usarlo con Jolenta o Baldanders.

Non posso sfuggire al pensiero che il potere manifestatosi in entrambi gli Artigli, provenisse da me, ed è per questo che le loro emanazioni, definite calde da altri, mi sono sempre parse invece fredde. Questo pensiero è l’equivalente psicologico di quel doloroso abisso nel cielo in cui avevo temuto di cadere quando avevo dormito sulle montagne. Io lo rifiuto e lo temo perché desidero terribilmente che sia vero; e sento anche che, se in questo pensiero ci fosse anche solo un’eco di verità, io l’individuerei dentro di me, il che non è.

Inoltre, vi sono ulteriori e profonde obiezioni a tale pensiero a parte la sua mancanza di risonanza interiore, e la più importante, convincente ed in apparenza ineliminabile di esse sta nel fatto che l’Artiglio fece rivivere Dorcas dopo parecchi decenni di morte… e lo fece prima che io sapessi di possederlo.

Questa tesi appare conclusiva, eppure, io non sono ancora certo che sia così. Forse che lo sapevo, in realtà? Intendo, ciò che significa sapere, nell’accezione più appropriata del termine? Io ho presunto di essere stato privo di sensi quando Agia aveva fatto scivolare l’Artiglio nella mia giberna, ma potevo essere soltanto intontito, e, del resto, molte persone ritengono da lungo tempo che chi si trova in stato d’incoscienza sia però consapevole di ciò che lo circonda e reagisca alle parole ed alla musica. Come spiegare diversamente i sogni provocati da suoni esterni? Quale porzione del cervello è priva di coscienza, in fin dei conti? Non tutte, altrimenti il cuore cesserebbe di battere ed i polmoni non respirerebbero più. Gran parte della memoria è basata sulla chimica: dopo tutto, quel che mi viene da Thecla e dal precedente Autarca è fondamentalmente così… e le droghe servono solo a far sì che i complicati elementi composti che formano il pensiero possano entrare nel mio cervello sotto forma d’informazioni. Non potrebbe allora darsi che certe informazioni derivate da fenomeni esterni s’imprimano chimicamente nel nostro cervello anche quando l’attività elettrica su cui facciamo affidamento per il pensiero cosciente, cessa per qualche tempo?