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Non mi è stato detto cosa ne fu dell’umanità di quel ciclo. Forse sopravvisse fino a che il suo universo implose, e poi scomparve con esso. O forse si evolse in modo tale da divenire irriconoscibile. Ma gli esseri che l’Umanità aveva modellato in ciò che uomini e donne desideravano essere, sopravvissero, aprendosi un passaggio fino a Yesod, un universo più elevato del nostro, dove i mondi creati erano adatti a ciò che erano divenuti.

Da quel punto vantaggioso, essi guardano sia avanti che indietro, e nel così fare, ci hanno scoperti. Forse noi non siamo altro che una razza simile a quella che li ha modellati. Forse siamo stati noi a modellarli… oppure i nostri figli… o i nostri padri. Malrubius mi ha confessato di non saperlo, ed io credo che fosse sincero. Comunque possa essere, essi stanno ora modellando noi come sono stati essi stessi modellati, e questo è al tempo stesso il loro modo di ripagarci e di vendicarsi.

Anche gli Hieroduli sono stati trovati e modellati da loro, più rapidamente, perché li servissero nel loro universo? In base alle loro istruzioni, gli Hieroduli costruiscono navi come quella che mi ha trasportato dalla giungla al mare, in modo da poter essere serviti da acquastori come Malrubius e Triskele. Con questi legami, noi veniamo tenuti fermi e forgiati.

Il martello di cui si servono è la loro abilità nel richiamare indietro i loro servitori lungo i corridoi del tempo e di mandarli avanti nel futuro. (Questo potere è essenzialmente lo stesso che permise loro di evitare la morte e di rifugiarsi altrove, perché entrare nei corridoi del tempo significa abbandonare l’universo.) Su Urth infine, la loro incudine è la necessità di vivere, il nostro bisogno, in quest’epoca, di combattere contro un mondo sempre più ostile con le risorse dei continenti impoveriti. Poiché questo metodo è tanto crudele quanto quello con cui essi stessi furono forgiati, la giustizia viene mantenuta; ma quando il Nuovo Sole apparirà, significherà che almeno le operazioni iniziali di questa forgiatura sono complete.

XXXV

LA LETTERA DI PADRE INIRE

Gli alloggi che mi furono assegnati si trovavano nella parte più antica della Cittadella. Le stanze vuote erano rimaste chiuse tanto a lungo che il vecchio castellano ed il cameriere incaricato di mantenerle in ordine pensarono che le chiavi fossero andate perdute e si offrirono, con molte scuse e molta reticenza, di forzare le serrature per me. Non mi concessi il piacere di guardarli in faccia, ma li sentii trattenere il respiro quando pronunciai le semplici parole che controllavano la porta.

Fu affascinante, quella sera, vedere quanto fosse stata diversa dalla nostra la moda del periodo durante il quale erano state arredate quelle camere. Non vi erano sedie, nel senso in cui noi le conosciamo, e come sedili c’erano soltanto complessi cuscini. I tavoli mancavano di cassetti e di quella simmetria che noi siamo arrivati a considerare cosi essenziale. Inoltre, per i nostri criteri, c’erano troppe stoffe e troppo poco legno, cuoio, pietra ed osso. Trovai l’effetto complessivo al contempo scomodo e sibaritico.

Eppure, era impensabile che potessi occupare un alloggio diverso da quello anticamente predisposto per gli Autarchi; ed era anche impossibile che lo facessi riarredare in una certa misura, perché questo avrebbe sottinteso una critica nei confronti dei miei predecessori. E, se l’arredo era più piacevole alla mente che al corpo, che gioia fu scoprire gli altri tesori che quegli stessi predecessori si erano lasciati alle spalle: c’erano documenti relativi a questioni ormai completamente dimenticate e non sempre identificabili; congegni meccanici ingegnosi ed enigmatici; un microcosmo che si animava al contatto delle mie mani ed i cui minuscoli abitanti sembravano farsi più grandi e umani man mano che li guardavo; un laboratorio contenente il favoloso «tavolo di smeraldo» e molte altre cose, la più interessante delle quali era una mandragora sotto spirito.

Il recipiente in cui galleggiava non era più alto di sette spanne né più largo di tre; l’omuncolo racchiuso all’interno non superava le due spanne. Quando picchiai contro il vetro, esso girò gli occhietti simili a perline verso di me, occhi, all’aspetto, più ciechi di quelli del Maestro Palaemon. Non udii alcun suono quando le sue labbra si mossero, eppure compresi immediatamente le parole che si formavano… ed in un qualche modo inesplicabile sentiii che il pallido fluido in cui la mandragora galleggiava era la mia stessa urina tinta di sangue.

— Perché mi hai distratto, Autarca, dalla contemplazione del tuo mondo?

— È veramente mio? — chiesi. — Adesso so che ci sono sette continenti, e che solo una parte di uno di essi obbedisce alle frasi santificate.

— Tu sei l’erede. — L’essere avvizzito mi rispose e poi si girò, non saprei dire se per caso o volutamente, fino a non trovarsi più di fronte a me.

— E tu chi sei? — chiesi, picchiando ancora sul vetro.

— Un essere senza genitori, la cui vita è trascorsa immersa nel sangue.

— Come, io sono stato un essere così! Allora dovremmo diventare amici, tu ed io, come lo sono di solito due esseri con lo stesso passato.

— Stai scherzando.

— Per nulla. Provo una reale simpatia per te, e credo che siamo più simili di quanto tu supponga.

La piccola creatura tornò a girarsi fino a che la sua faccia arrivò a fissare la mia.

— Vorrei poterti credere, Autarca.

— Dico sul serio. Nessuno mi ha mai accusato di essere un uomo onesto, ed ho mentito a sufficienza quando pensavo che mi sarebbe stato utile, ma sono assolutamente sincero. Se posso fare qualcosa per te, dimmi di cosa si tratta.

— Rompi il vetro.

— Ma tu non moriresti? — chiesi, esitando.

— Non ho mai vissuto. Cesserei di pensare. Rompi il vetro.

— Ma tu vivi.

— Io non cresco, non mi muovo, non rispondo ad alcuno stimolo tranne che al pensiero, che non è considerato una reazione. Sono incapace di propagare la mia razza o qualsiasi altra. Rompi il vetro.

— Se davvero non sei vivo, mi piacerebbe trovare un qualche modo per portarti alla vita.

— Ecco a che serve la fratellanza. Quando eri imprigionata qui, Thecla, e quel ragazzo ti ha portato il coltello, perché non hai cercato allora di continuare a vivere?

Il sangue mi bruciò sulle guance, e sollevai il bastone d’ebano, ma non colpii.

— Vivo o morto, hai un’intelligenza penetrante. Thecla è la parte di me più propensa all’ira.

— Se tu avessi ereditato le sue ghiandole, insieme alle sue memorie, sarei riuscito nel mio intento.

— E sai anche questo. Come puoi conoscere tante cose, tu che sei cieco?

— Le azioni delle menti grezze provocano minuscole vibrazioni che agitano l’acqua di questa bottiglia. Io sento i tuoi pensieri.

— Noto che io sento i tuoi. Come può essere che solo io, e non altri, li sento?

Fissando ora direttamente la faccia contratta ed illuminata dall’ultimo raggio di sole che penetrava da un portello polveroso, non fui certo che le labbra si muovessero.

— Senti te stesso, come sempre. Non puoi sentire gli altri perché la tua mente strilla in continuazione, come un neonato che piange nella culla. Ah, vedo che te ne ricordi!