Mi sedetti e mi guardai intorno: mi sentivo bene, meglio, in effetti, di quanto mi fossi mai sentito prima, ma ero caldo, e sembravo splendere internamente. Roche dormiva girato sul fianco, i capelli rossi aggrovigliati, la bocca leggermente aperta, il viso rilassato ed infantile ora che dietro di esso mancava l’energia della mente. Attraverso l’oblò, potevo vedere la neve che scendeva lenta sul Vecchio Cortile, neve caduta da poco e che non recava ancora traccia di uomini o di animali, ma mi venne in mente che nella nostra necropoli dovevano già esserci centinaia di tracce mentre i piccoli animali che vi trovavano rifugio, compagni di gioco dei morti, vagavano in cerca di cibo o per divertirsi nel nuovo paesaggio che la Natura aveva approntato per loro. Mi vestii rapidamente ed in silenzio, portandomi un dito alle labbra ogni qualvolta uno degli altri apprendisti si muoveva, e mi affrettai giù per la stretta scala che occupava il centro della nostra torre.
Mi parve più lunga del solito, e scoprii di avere difficoltà a passare da uno scalino all’altro. Ci rendiamo sempre conto dell’ostacolo rappresentato dalla forza di gravità quando saliamo una rampa di scale, ma diamo per scontato l’aiuto che essa ci fornisce nella discesa. Adesso, quell’aiuto era stato abolito o quasi, ed io ero costretto a forzare i piedi a scendere, ma in un modo che m’impedisse di rimbalzare verso l’alto come mi sarebbe accaduto se avessi colpito con forza lo scalino. In quel modo irreale in cui siamo consapevoli delle cose nei sogni, compresi che tutte le torri della Cittadella si erano finalmente innalzate e stavano compiendo il loro viaggio al di là del cerchio di Dis. Mi sentii felice per quella conoscenza, ma desideravo ancora andare nella necropoli per seguire le tracce delle volpi e dei coati. Mi stavo affrettando a scendere il più presto possibile quando sentii un gemito. La scala non scendeva più, come avrebbe dovuto fare, ma portava in una stanza, così come le scale della torre di Baldanders passavano attraverso i muri delle stanze.
Era la stanza dove il Maestro Malrubius giaceva ammalato. I Maestri hanno diritto a spaziosi alloggi, ma questo era di gran lunga più ampio di quanto lo fosse stata la cabina reale. C’erano due oblò, proprio come io ricordavo, ma erano enormi… come gli occhi del Monte Typhon. Il letto del Maestro Malrubius era molto grande, eppure sembrava perdersi nell’immensità della stanza. Due figure erano chine su di lui, e, sebbene i loro abiti fossero neri, rimasi colpito dal fatto che non avessero la tinta fuligginosa che contraddistingueva gli indumenti della corporazione. Mi accostai, e, quando fui tanto vicino da poter udire il respiro affannoso del malato, esse si raddrizzarono e si volsero a guardarmi: erano la Cumana e la sua accolita, Merryn, le streghe che avevamo incontrato in cima alla tomba nella città di pietra in rovina.
— Ah, sorella, sei venuta finalmente — disse Merryn.
Quando parlò, mi resi conto di non essere, come avevo creduto, l’apprendista Severian, bensì Thecla, come era quando aveva la stessa età, cioè fra i tredici ed i quattordici anni. Provai un profondo imbarazzo, non perché avessi un corpo femminile o perché indossassi abiti maschili (cosa che piuttosto mi faceva piacere), ma perché fino a quel momento non me ne ero reso conto. Sentii anche che le parole di Merryn avevano provocato una magia… che sia Severian che io eravamo stati presenti fino a quel momento e che lei aveva in qualche modo sospinto Severian sullo sfondo. La Cumana mi baciò sulla fronte, e, quando lo ebbe fatto, si pulì il sangue che le macchiava le labbra. Sebbene non parlasse, compresi che quello era una sorta di segnale indicante che io ero diventata in qualche modo anche il soldato.
— Quando dormiamo — mi disse Merryn, — ci spostiamo dalla temporalità all’eternità.
— Quando ci destiamo — sussurrò la Cumana, — perdiamo la capacità di vedere al di là del momento presente.
— Lei non si sveglia mai — si vantò Merryn.
Maestro Malrubius si agitò e gemette, e la Cumana, presa una caraffa d’acqua dal tavolino vicino al letto, ne versò un poco in un bicchiere. Quando tornò a posare la caraffa, qualcosa di vivo si agitò in essa, ed io, per chissà quale ragione, pensai all’ondina. Mi trassi indietro, ma si trattava di Hethor, non più alto della mia mano, la grigia faccia barbuta premuta contro il vetro.
Sentii la sua voce come si può udire lo squittio di un topo.
— Costretto talvolta ad atterrare dalle tempeste di fotoni, dal roteare delle galassie, in un senso o nell’altro, scattando come luce lungo gli oscuri corridoi marini tappezzati delle nostre vele argentee, veleggia il nostro specchio incalzato dai demoni, il nostro albero alto cento leghe sottile come un filo, sottile come aghi d’argento che cuciano con fili di luce stellare, ricamando le stelle su velluto nero, umido per i venti del Tempo che passa precipitoso. L’osso fra i suoi denti! La spuma, la spuma volante del Tempo, gettata su queste spiagge dove vecchi marinai non possono più tenere lontane le loro ossa dall’inquieto universo mai stanco. Dov’è andata? La mia signora, la compagna della mia anima? È andata attraverso le agitate maree dell’Acquario, dei Pesci, dell’Ariete. Andata. Andata nella sua piccola barca, il seno premuto contro la coperta di nero velluto; andata, veleggiando per sempre lontano dalle spiagge lambite dalle stelle, dagli aridi scogli dei mondi abitabili. Lei è la sua nave, lei è la figura scolpita a prua, il capitano. Nostromo, Nostromo, fa calare la lancia! Tessitore di vele, prepara una vela! Ci ha lasciati indietro. Noi l’abbiamo lasciata indietro. Lei è nel passato che noi non abbiamo mai conosciuto ed è nel futuro che noi non vedremo. Issa altre vele, Capitano, perché l’universo ci sta lasciando indietro…
C’era una campana posata sul tavolino accanto alla caraffa. Merryn la fece suonare come per soffocare la voce di Hethor, poi, quando Maestro Malrubius si fu inumidito le labbra con il liquido del bicchiere, lo tolse di mano alla Cumana e gettò per terra quanto vi rimaneva, posando poi il bicchiere rovesciato sul collo della caraffa. Così, Hethor venne zittito, ma l’acqua si sparse sul pavimento, gorgogliando come se fosse alimentata da una qualche sorgente nascosta. Era gelida, e pensai vagamente che la mia governante si sarebbe arrabbiata perché mi ero bagnata le scarpe.
Una cameriera arrivò al suono della campana… la cameriera di Thecla, la cui gamba scorticata avevo ispezionato il giorno dopo aver salvato Vodalus. Adesso era più giovane, come doveva essere stata quando Thecla era ancora una bambina, ma la sua gamba era già stata scorticata ed era coperta di sangue.
— Mi dispiace — dissi. — Mi dispiace così tanto, Hunna. Non sono stata io a farlo… è stato il Maestro Gurloes, con qualcuno degli artigiani.
Il Maestro Malrubius si sollevò a sedere sul letto, e, per la prima volta, notai che il letto era costituito in effetti dalle mani di una donna, con dita più lunghe del mio braccio ed unghie simili ad artigli.
— Stai bene! — disse, come se fossi stata io ad essere quasi in punto di morte. — O quasi bene, almeno.
Le dita della mano cominciarono a chiudersi su di lui, ma egli balzò giù dal letto nell’acqua che ora arrivava al ginocchio.
Un cane… il mio vecchio Triskele… si era tenuto nascosto sotto il letto, a quanto sembrava, o forse era semplicemente disteso dalla parte opposta, fuori vista. Adesso venne verso di noi sguazzando nell’acqua con l’unica zampa anteriore, mentre spingeva attraverso essa l’ampio petto abbaiando gioiosamente. Il Maestro Malrubius prese la mia mano destra e la Cumana mi afferrò la sinistra: insieme, mi condussero verso uno dei grandi occhi della montagna.
Scorsi lo stesso panorama che avevo visto quando Typhon mi aveva condotto là. Il mondo era disteso come un tappeto, e visibile nella sua interezza, ma questa volta lo spettacolo era decisamente più splendido. Il sole stava alle nostre spalle, ed i suoi raggi sembravano avere una forza molto maggiore. Le ombre avevano assunto una tinta dorata, ed ogni pianta sembrava diventare più scura e rinforzarsi mentre guardavo. Potevo vedere il grano maturare nei campi e perfino le miriadi di pesci nel mare andare avanti e indietro con l’infittirsi delle piccole piante di superficie che davano loro il sostentamento. L’acqua proveniente dalla stanza alle nostre spalle si riversò fuori dall’occhio, e, riflettendo la luce, precipitò descrivendo un arcobaleno.