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Edgar Pangborn

La compagnia della gloria

CAPITOLO 1

CON UN PO’ D’AMORE

Se mi è sfuggito qualche altro aspetto dell’infinito, posso trovarlo in un filo d’erba.

DEMETRIOS.

Il vecchio faceva oscillare il bastone di noce; ne apprezzava il sostegno, ma non ne aveva realmente bisogno, poiché non era più cieco di Omero. Mentre camminava per Harrow Street, incontrò un ragazzo che conduceva un cavallo dal maniscalco, e alcune ragazze che tornavano dal ruscello con le ceste del bucato. — Buona giornata a te, Garth! Come sta Frankie?

— Buona giornata anche a te, Demetrios, — disse il ragazzo, sorridendo con calore e un po’ di timidezza. — Frankie sta bene. — Garth s’era soffermato, e accarezzava il collo del cavallo; adocchiava le ragazze che, nei loro camici bagnati, avevano posato le ceste e si stavano riassettando i capelli, ma stava anche attento al narratore. Nessuno ignorava il narratore.

La faccia di Demetrios, così simile a quella d’un falco pellegrino, sembrava volare verso di te, anche quando era immota. La lunga mano destra, con quelle giunture prominenti, anche quand’era posata sul bastone additava terre lontane, visioni di luoghi stranieri. Demetrios era alto… il che era comodo, per uno che guardava al di sopra delle teste chine e intente. I capelli grigi, lievemente inargentati, gli cadevano lisci sulle spalle. Aveva sessant’anni, e non era vecchio, bensì stagionato, come il suo bastone di noce, come un vino che è rimasto nel tino abbastanza a lungo per maturare in un modo che forse non garba a tutti. Il giovanissimo Garth, all’età in cui l’amore d’un cuore buono deve traboccare, lo adorava: quale altro vecchio ricordava il nome d’un garzone di stalla e addirittura del suo fratellino? E alcuni erano incantati dalla bravura professionale di Demetrios come narratore, e non provavano per lui né simpatia né antipatia, ma gli rendevano omaggio ascoltandolo. Una ragazza che si chiamava Solitaire lo desiderava ed era desiderata da lui.

Uscito da una strada laterale, un venditore ambulante (uno straccivendolo più vecchio dì Demetrios) spinse accanto a loro la carriola e la appoggiò sul sostegno, asciugandosi la faccia con un pezzo di stoffa sudicia. Era un pomeriggio afoso e pesante di luglio; il vento, che ammucchiava masse grigie nell’aria sulle montagne, lì non si faceva ancora sentire, anche se tra non molto un temporale avrebbe potuto avventarsi sulla misera cittadina, rimescolando fango, spazzatura e liquame per le strade di Nuber e riversando parte del sudiciume nei canali dei fossati centrali, spostando la putredine da un luogo all’altro, come per tanto, tanto tempo aveva fatto la società umana. Anch’egli vecchio e avvezzo all’impudenza (qualunque pubblicità è pubblicità utile, dicevano nel Tempo Antico, così mi hanno riferito, fino a quando non ci si erano strozzati), lo straccivendolo si sentì in diritto di gracchiare: — Dimmy, vecchio colpo di vento! Hai qualche storia per noi… una con un gran bel paio di balle?

— Le tue sono forse flosce, Potterfield? — La voce più sommessa di Demetrios si poteva sentire a una distanza di sessanta piedi Una delle ragazze ridacchiò, coprendosi la bocca con una mano arrossata dal bucato e guardando di sottecchi Garth, che arrossiva facilmente: non aveva ancora quindici anni. Educata per raggiungere le ultime file della folla, la voce baritonale di Demetrios qualche volta sembrava acuta. Un tempo aveva cantato un po’, fino a che un musicista gli aveva detto che non aveva molto orecchio; la sua voce andava molto meglio per raccontare sogni. Una donna si affacciò generosamente a una finestra del pianterreno, con un fazzoletto sui capelli, e Demetrios chiese: — Posso sedermi qui, Madam, e raccontarti una storia, se vuoi ascoltarla?

— I grr… — La donna sputò un nocciolo di pesca sulla scala che stava sotto la sua finestra e si riprese. — I gradini non sono nostri, noi siamo qui in affitto. Ma siediti e racconta pure la tua storia, cara anima. Ci penserò io a mettere a posto chiunque dirà che non puoi farlo.

— Allora magari racconterò una storia per te, proprio per te, e con un po’ d’amore dentro, e Potterfield si dovrà rassegnare.

— Io non ho niente contro l’amore, — borbottò Potterfield, — come disse la mosca quando restò con le chiappe appiccicate al miele.

Demetrios sedette all’ombra e intrecciò le mani sul pomo del bastone di noce, e per un po’ chiuse gli occhi, rievocando, osservando l’oceano notturno della memoria e della riflessione, alla ricerca d’un mercantile pronto ad approdare al molo e ai magazzeni industriosi della sua mente. Ritrovò un timore abituale, che quel giorno nessuna nave navigasse; capitano giorni così, per la nostra afflizione. — Ero bambino, — disse. — Credo di non aver mai raccontato storie della mia infanzia. C’era una volta… no, non quella. Lasciatemi rimuginare. Il vento viene da est… non è un vento che porti il bel tempo… Tutte le storie incominciano nell’infanzia. Prima che si incominci a parlare.

«Sappiate allora che io che vi parlo sono nato in una piccola città, che a voi sembrerebbe grande. La sua popolazione era all’incirca di tremila abitanti, prima della Guerra dei Venti Minuti, che segna l’inizio dell’Anno Uno del nostro calendario, e credo che l’attuale popolazione qui, nella città di Nuber, sia di poco superiore… quattromila, forse, quattromila fedeli sudditi della Repubblica del Re, — disse, e nessuno rise. — La mia cittadina si chiamava Hesterville, ed era lontana non molte miglia, più a monte, dalla città di Hannibal, in quello che allora era lo stato del Missouri. Il Missouri è assai lontano”, a occidente… e non importa se non ne avete mai sentito parlare. Tra l’altro, a Hannibal era nato un uomo che si chiamava Sam Clemens, centoquarantacinque anni prima che io nascessi a Hesterville. Ho pensato a lui, perché anch’egli era un narratore, ma grandissimo. Le sue storie erano scritte nei libri, e i libri si moltiplicavano a migliaia… si chiama stampa, e voi ne avete sentito parlare; mi hanno detto che c’è un torchio a mano, qui a Nuber, voglio dire un altro oltre a quello autorizzato che adoperano nella Città Interna. Dunque, le storie dì Clemens venivano lette e conservate in tutto il mondo, che allora era più grande, e perfettamente rotondo. Egli le scriveva sotto un nome inventato, Mark Twain, più famoso del suo nome vero. I nomi sono importanti: ci servono per parlarci gli uni con gli altri. Le storie di Mark Twain dureranno, a meno che tutti i libri non siano andati perduti e distrutti; e anche in questo caso, per qualche tempo verranno ancora raccontati. Le mie storie sono scritte nell’aria. Chissà dove va a finire una storia, dopo che il poeta l’affida ai venti?»

Poi, io lo so, il vecchio si chiese se doveva raccontare un brano della storia di Huck Finn… Il contesto è scomparso. C’era la schiavitù nel 1993, ma i suoi metodi e il suo nome erano completamente diversi. Vi sovrintendevano esperti impassibili che la chiamavano Sospensione Temporanea della Normalità. Che poteva sapere, quella buona gente ignorante, della schiavitù ammessa apertamente? O del negro Jim? «Va bene, ANDRÒ all’inferno!»… che cosa potevano capirne quelli?Il contesto era andato perduto. In quanto al mondo prebellico di Huck, perduto da tanto tempo, già nella mia infanzia, che, a leggerne, pareva ancora più remoto dell’Arcadia di Pan… oh, di quello potrebbero capirne un poco, se fossi capace di comunicarglielo. Adesso è più vicino a noi di quanto non lo fosse in qualunque momento del ventesimo secolo, adesso che la flaccida carcassa di plastica della civiltà industriale è sepolta. Poco a poco l’aria perde quella sozzura; la terra, e persino il mare torturato e degradato, incominciano a riacquistare un po’ della bellezza che il progresso del dollaro aveva devastato e contaminato. Ci sono anche delle perdite. Sia pure. Se mi è sfuggito qualche altro aspetto dell’infinito, posso trovarlo in un filo d’erba.