Poul Anderson
La comunione della carne
Sapeva bene cosa fossero le armi da fuoco che quegli stranieri così alti portavano appese al fianco. Erano stati loro stessi che ne avevano mostrato il funzionamento alle guide indigene. Moru ignorava però a cosa servissero quegli altri aggeggi che essi maneggiavano quando parlavano nella loro lingua: erano trasmettitori audiovisivi, ma lui credeva che si trattasse di feticci.
Così, quando Moru uccise Donli Sairn, lo fece letteralmente sotto gli occhi di sua moglie.
All’ora concordata di ogni giorno, che su quel pianeta contava ventotto ore, il biologo si metteva in comunicazione con i suoi colleghi, e siccome era sposato da poco, sua moglie Evalyth approfittava della trasmissione per inserirsi e attendere che il marito terminasse di parlare per rubargli qualche minuto.
Quindi non fu un fatto eccezionale che Evalyth fosse sintonizzata proprio in quel momento. Aveva pochissimo da fare in qualità di tecnico militare della spedizione. Doveva solo sorvegliare uno degli edifici nei quali si erano insediati, e per far ciò era anche assistita dagli abitanti di Lokon, che a prima vista destavano qualche preoccupazione per via di quell’atteggiamento un po’ misterioso, ma Evalyth per esperienza e per istinto aveva capito che si trattava solo di timore reverenziale. Anzi, in più occasioni aveva compreso quanto ambissero instaurare un sentimento di amicizia.
Anche il comandante Jonafer la pensava così e quindi il compito di Evalyth era diventato assai leggero; perciò lei occupava parte del suo tempo dandosi da fare per apprendere più che poteva sul lavoro del marito, per essere in grado di diventare sua assistente quando fosse rientrato.
Inoltre le ultime analisi mediche le avevano confermato di essere incinta, ma aveva deciso di non dire niente al marito finché si trovava a centinaia di chilometri di distanza. Gli avrebbe dato la notizia quando fossero stati di nuovo insieme. Per il momento, comunque, la consapevolezza di aver originato una nuova vita le faceva considerare Donli come la luce che rischiara la via.
Quel pomeriggio Evalyth era entrata fischiettando nel laboratorio biologico. All’esterno i raggi del sole colpivano con violenza il suolo polveroso, illuminando di una luce color ottone le baracche prefabbricate raggruppate attorno alla nave con la quale erano giunti dall’orbita della Nuova Aurora, e riscaldavano le apparecchiature e le gravitoslitte, che servivano a trasportare gli uomini nell’unica regione abitabile di quel pianeta: la grande isola.
Al di là della staccionata, oltre le cime frondose degli alberi e delle costruzioni in argilla, un fitto brusio e un calpestio di piedi, uniti all’odore amarognolo di un fuoco di legna presente nell’aria, rivelavano la presenza di una cittadina di parecchie migliaia di abitanti che si estendeva fino al lago Zelo.
Più di metà dell’abitazione dei Sairn era occupata dal laboratorio biologico. In quel periodo, in cui un numero molto limitato di culture cercava disperatamente la civiltà, i Pianeti Alleati inviavano le proprie astronavi fra i resti dell’impero, e i comfort erano assai esigui.
A Evalyth però era sufficiente l’idea che quella fosse la casa sua e di Donli, tanto più che alle ristrettezze era già abituata. Quello che l’aveva maggiormente colpita nel marito, il giorno che lo aveva conosciuto su Kraken, era stato proprio lo spirito con il quale lui, pur provenendo da Atheia, si era adattato al tenore di vita di quel mondo tanto cupo e severo, tanto più che si diceva che Atheia fosse riuscita a mantenere le comodità conquistate nel momento di maggior splendore della Vecchia Terra.
Lì la gravità era di 0,77 standard, almeno due terzi inferiore a quella della sua terra d’origine e consentiva a Evalyth di scivolare con agilità fra tutte quelle apparecchiature e campioni. Era giovane, alta e forte, con un corpo attraente sebbene con i lineamenti eccessivamente marcati per i gusti degli uomini delle altre razze. Come tutti i suoi connazionali era biondissima e ricoperta di complicati tatuaggi sulle gambe e sugli avambracci; portava in vita un disintegratore che veniva tramandato di padre in figlio, ma aveva sostituito l’abbigliamento tipico di Kraken con la semplice tuta che indossavano tutti i membri della spedizione.
Era davvero piacevole quella baracca così fresca e ombrosa! Evalyth si sedette tirando un sospiro di sollievo e mise in funzione il trasmettitore. Nel momento in cui nell’aria prese forma l’immagine tridimensionale e si udì la voce di Donli, avvertì il cuore sobbalzarle leggermente nel petto.
— …Pare sceso da una specie di trifoglio.
Il ricevitore trasmetteva un quadro di alberi bassi e sparsi in mezzo alle pseudo-erbe indigene dal colore rossiccio, con foglie verdi e trilobate; quando Donli si avvicinò per permettere al calcolatore di memorizzare i più piccoli particolari, l’immagine si ingrandì. Evalyth si sforzò di ricordare, inarcando le sopracciglia… ecco! Il trifoglio era una forma vivente originaria della Vecchia Terra, ed era stata trasportata dall’uomo su un numero elevatissimo di pianeti prima dell’arrivo della Lunga Notte… cose ormai dimenticate da tutti.
Questi organismi erano in alcuni casi tanto cambiati rispetto alla forma originale da essere irriconoscibili. Migliaia di anni trascorsi li avevano modificati e adattati alle nuove condizioni ambientali, mentre i cambiamenti genetici si erano verificati quasi casualmente solo su piccoli gruppi iniziali. Nessuno su Kraken avrebbe immaginato che i rizobatteri, i pini e i gabbiani fossero forme provenienti dalla Terra, successivamente modificati, finché non furono riconosciuti dal gruppo di Donli. Nessuno di loro era ancora tornato al pianeta d’origine, ma le memorie di Atheia straboccavano di informazioni, come l’adorato capo ricciuto di Donli…
E quella che si distingueva nel campo visivo era proprio la sua mano, intenta a raccogliere campioni.
Evalyth provò l’impulso di baciarla ma si trattenne grazie al suo senso del dovere. Siamo al lavoro, si ripeté, abbiamo trovato una nuova colonia che era andata persa e che versa in condizioni disastrose, primitive al massimo. È nostro compito informare la Commissione se una spedizione civilizzatrice possa avere successo o se sia meglio utilizzare altrove le già scarse risorse dei Pianeti Alleati, abbandonando al proprio destino questa popolazione ancora per qualche centinaio di anni. Ma per poter completare il rapporto occorre approfondire la loro cultura e il loro mondo, ed è proprio per questo motivo che io sto qui su questi altipiani mentre lui si trova giù tra i barbari della giungla.
Per favore, amore, fai in fretta!
Udì la voce di Donli parlare nel linguaggio dei pianori, un genere decaduto del lokonese a sua volta lontano derivato dell’anglico. I glottologi l’avevano studiato in brevissimo tempo, lavorando intensamente; quindi, tramite il metodo ipnotico, l’avevano insegnato a tutto l’equipaggio.
Donli, in particolare, dopo alcuni giorni a contatto con gli indigeni parlava correttamente il loro dialetto, con grande ammirazione di Evalyth.
— Siamo quasi arrivati, vero Moru? Non mi avevi assicurato che si trovava di fianco all’accampamento?
— Ci siamo quasi, uomo venuto dalle nuvole!
Evalyth sentì risuonare dentro di sé un campanello di allarme. Cosa stava accadendo? Donli si era allontanato con la sola compagnia di un abitante del luogo? E sì che Rogar di Lokon li aveva avvisati della possibilità di un tradimento da parte degli indigeni! Ma solo il giorno prima Haimie Fiell, precipitato in un fiume impetuoso, era stato salvato dalle guide che avevano messo a repentaglio la propria vita…
Quando Donli fece dondolare il trasmettitore l’immagine si offuscò per un istante, suscitando in Evalyth un senso di vertigine. Solo a tratti riusciva ad avere una visione più vasta.
La foresta circondava un sentiero aperto dalle bestie selvatiche: si distinguevano i colori del fogliame, l’oscurità dei rami e dei tronchi, delle ombre e talvolta si udivano richiami invisibili. A Evalyth pareva addirittura di avvertire il caldo umido e soffocante dell’aria e di sentire odori pungenti e ben poco piacevoli.