La notte scelta per la spedizione, chiazze bianche di nebbia si alzavano dall’oceano e giungevano a riva a folate, sotto un quarto di luna che conferiva loro una debole luminescenza. Aspettavo sulla soglia della baracca, senza fare caso al russare di Pa’. Un’ora prima gli avevo letto un libro per farlo addormentare, e lui giaceva pesantemente sul fianco, le dita callose contro la cicatrice sulla tempia. Pa’ è zoppo e debole di cervello per un incidente nel tentativo di catturare un cavallo quando ero piccolo. Mamma gli leggeva sempre qualcosa per farlo addormentare; alla sua morte, Pa’ mi aveva mandato da Tom a continuare la scuola, dicendo nel suo modo lento di parlare che sarebbe stato un bene per entrambi. Aveva ragione, credo.
Di tanto in tanto mi scaldavo le mani sulle braci grigie della stufa, perché tenevo socchiusa la porta della baracca e fuori faceva freddo. Il grande eucalipto in fondo al sentiero scompariva a tratti. Una volta mi parve di scorgere delle figure in piedi sotto l’albero; poi uno sbuffo umido di nebbia, puzzolente come la spianata alla foce del fiume, entrò in casa; quando svanì, sotto l’albero non c’era nessuno. Mi augurai che gli altri arrivassero. A parte il ronfare di Pa’, si udiva solo il fievole picchiettio delle goccioline di nebbia che dalle foglie scivolavano sul tetto.
U-uuu, u-uuu. Il richiamo di Steve mi svegliò di soprassalto: per un attimo mi ero assopito. Quel segnale era una buona imitazione del verso dei grossi gufi di canyon, anche se i gufi si udivano sì e no una volta all’anno e quindi, a mio parere, era sciocco usare proprio quel verso come segnale segreto. Comunque, era preferibile al colpo di tosse del leopardo, prima idea di Steve: almeno non rischiavamo che ci sparassero.
Scivolai fuori e mi affrettai a raggiungere l’eucalipto. Steve aveva in spalla i due badili di Del; quest’ultimo e Gabby erano fermi dietro di lui.
«Dobbiamo andare a prendere Mando» dichiarai.
Del e Gabby si scambiarono un’occhiata. «Mando Costa?» disse Steve.
Lo fissai. «Sarà lì ad aspettarci.» Mando e io eravamo più giovani degli altri, io di un anno, Mando di tre. Spesso mi sentivo obbligato a prenderne le difese.
«La casa di Mando è sulla strada, comunque» disse Steve agli altri. Seguimmo il sentiero del fiume fino al ponte, lo attraversammo e ci avviammo per il sentiero della montagna che portava dai Costa.
La bizzarra casa di Doc Costa, fatta con vecchi bidoni di petrolio, sembrava un piccolo castello nero uscito dalle pagine dei libri di Tom: tozza come un rospo e più scura, nella nebbia, di ogni altro oggetto naturale. Nicolin emise il verso; Mando uscì subito e si avvicinò in fretta.
«Sempre decisi a farlo stanotte?» chiese, con un’occhiata alla nebbia.
«Certo» risposi in fretta, prima che gli altri approfittassero della sua esitazione per lasciarlo a casa. «Hai la lanterna?»
«L’ho dimenticata.» Mando tornò in casa a prenderla. Tutti insieme scendemmo alla vecchia autostrada e la imboccammo, diretti a nord.
Procedevamo a passo svelto per scaldarci. Nella nebbia, l’autostrada era un duplice nastro livido, pieno di crepe in cui crescevano erbacce nerastre. Attraversammo in fretta il crinale che segnava l’estremità nord della nostra valle e, subito dopo, la stretta valle San Mateo. Continuammo su e giù per le ripide alture di San Clemente. Ci tenevamo vicini e non parlavamo molto. Tutt’intorno, la foresta era ingombra di rovine: pareti in prefabbricati di cemento, tetti sostenuti da intelaiature scheletriche, intrichi di cavi metallici fra un albero e l’altro… tutte cose scure e immobili. Ma sapevamo che gli sciacalli vivevano lì da qualche parte e camminavamo in fretta, silenziosi come i fantasmi sui quali Del e Gabby avevano scherzato due chilometri prima, quando si sentivano meno a disagio. Un’umida lingua di nebbia si protese sopra di noi, mentre la strada scendeva bruscamente in un largo canyon; non riuscimmo più a vedere altro che l’asfalto accidentato. Dalle tenebre silenziose e umide provenivano scricchiolii e a volte uno sgocciolio passeggero, come se qualcosa avesse sfiorato le foglie bagnate: qualcosa che seguisse noi, appunto.
Steve si fermò a esaminare una rampa d’uscita che curvava scendendo sulla destra. «Ci siamo» sibilò. «Il cimitero si trova in cima a questa altura.»
«Come lo sai?» chiese Gab, a voce normale, che risuonò terribilmente forte.
«Sono già venuto qui e l’ho visto» rispose Steve. «Come credevi che lo sapessi?»
Lasciammo l’autostrada seguendo Steve, assai impressionati perché era venuto lì da solo. Neppure io ne ero al corrente. Giù nella foresta c’erano quasi più edifici che alberi, ed erano edifici grossi, in rovina: porte e finestre strappate come denti, con cespugli e felci che crescevano in ogni apertura; pareti crollate; tetti ammonticchiati per terra. La nebbia ci seguì per questa via, provocando fruscii che sembravano lo scalpiccio di mille zampette. C’erano cavi metallici tesi su pali a volte inclinati fino a toccare la strada; fu necessario scavalcare i pali e nessuno di noi toccò i fili.
Il latrato di un coyote squarciò il silenzio. Ci fermammo di colpo. Era un coyote vero o uno sciacallo? Ma non ci furono altri rumori. Riprendemmo il cammino, più nervosi che mai. La strada faceva goffi tornanti all’estremità della valle; superati questi, ci ritrovammo sul pianoro tagliato dal canyon, un tempo la parte alta di San Clemente. Lassù c’erano delle case, di quelle grandi, disposte in fila lungo la via come pesci a seccare: si sarebbe detto che una volta la gente fosse tanto numerosa da non consentire a ogni famiglia un orto decente. Le case erano per la maggior parte sventrate e invase dalle erbacce; alcune, crollate del tutto, erano semplici pavimenti da cui sporgevano tubature, come braccia da una fossa. In quella zona erano vissuti gli sciacalli, e avevano consumato una casa dopo l’altra per ricavarne legna da ardere, passando a quella successiva quando il loro covo era esaurito: una pratica di cui avevo sentito parlare, ma di cui non avevo mai visto di persona i risultati, la distruzione e lo spreco.
Steve si fermò a un incrocio trasformato in fossa per i falò.
«Certo che le strade le progettavano bene» osservò Del.
«Da questa parte» disse Steve.
Lo seguimmo verso nord, lungo una via parallela all’oceano e al bordo del pianoro. Sotto di noi, la nebbia era simile a un secondo oceano che ci ricacciava sulla spiaggia, per così dire, e di tanto in tanto ci lambiva con le sue onde. La fila di case terminò e iniziò una staccionata, con ringhiere di ferro che collegavano pilastri di pietra. Al di là, il pianoro ondulato era cosparso di pietre squadrate sporgenti dall’erba: il cimitero. Ci fermammo a guardare. Nella nebbia era impossibile scorgere dove terminasse; sembrava un cimitero grandissimo. Finalmente scavalcammo una breccia nella staccionata e avanzammo nell’erba folta, fra cespugli e lapidi.
Le tombe erano disposte con la stessa simmetria delle case. All’improvviso Steve alzò il viso al cielo e lanciò l’ululato del coyote, yip yip yoo-ee-oo-ee-oo-eee, con vocalizzi in falsetto degni di un cane selvatico.
«Piantala» disse Gabby, disgustato. «Ci manca solo che i cani ci ululino dietro.»