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«Dov’è Steve?» mi domandò Tom.

Non alzai lo sguardo da terra. Dalla cucina, rispose Rafael.

«È rimasto su a nord a sparare un paio di caricatori contro gli sciacalli.»

Tom si agitò contro la parete, tossì.

«Smettila di muoverti» disse Doc.

Un ramo portato dal vento urtò la casa, con rumore secco. Il respiro di Mando era rapido, rauco, basso. Doc gli piegò la faccia di lato, gli asciugò dalle labbra un filo di sangue rosso vivo. Sotto di me, il pavimento, la grana liscia delle assi del pavimento. Nodi sollevati sulla superficie consumata, fessure, schegge lucide e nette alla luce delle lampade, sabbia da sfregatura negli angoli, contro le pareti. Il piede del letto più vicino aveva una zeppa. Le lenzuola erano così vecchie che ogni filo del tessuto risaltava; lavoro d’ago, nelle toppe. Fissai il pavimento, non sollevai lo sguardo. Respirare mi faceva male, avrei potuto essere io il ferito. Ma non ero io. Non ero io. Le gambe di Kathryn entrarono nella stanza, piegarono un poco le assi. Le gambe di Gabby seguirono.

«Mi serve aiuto» disse Doc.

«Eccomi» rispose Kathryn, calma.

«Dobbiamo infilare un tubicino fra queste costole e drenare il sangue e l’aria dalla cavità toracica. Prendi in cucina un barattolo pulito, mettici quattro dita d’acqua.» Kathryn uscì, tornò. I loro piedi erano gli uni di fronte agli altri, sotto il letto di Mando. «Temo che l’aria entri e non esca. Tensione pneumotoracica. Qui, posa il tubicino e il cerotto. Tienilo fermo. Inciderò qui.»

Mi tappai le orecchie. Niente suoni. Niente immagini, a parte argentee assi di legno. Niente di reale, tranne legno… Ma no. Colpi di tosse soffocati, dal vecchio. Una rapida occhiata in alto: la schiena di Kathryn, in maglietta e calzoni sorretti da uno spago; il vecchio, che li fissava senza battere ciglio. Per terra il barattolo, con il tubicino di plastica chiara infilato nell’acqua. All’improvviso l’acqua gorgogliò. Del sangue colò lungo il tubicino, macchiò l’acqua. Altre bolle. Lo sguardo inflessibile del vecchio: mi avvolsi le braccia intorno allo stomaco, alzai lo sguardo. L’ampia schiena di Kathryn m’impediva di vedere Mando. Fui scosso da brividi. Spalle ampie, natiche larghe, cosce spesse, caviglie sottili. Gomiti affaccendati, mentre Kathryn strappava dal rotolo un pezzo di cerotto e lo applicava a Mando dove non vedevo.

Kathryn girò la testa, mi diede un’occhiata. «Dov’è Steve?»

«Su a nord.»

Con una smorfia si girò a lavorare.

Tom tossì di nuovo, piano, ma diverse volte. Doc lo guardò. «Stai disteso, tu!» disse, brusco.

«Sto bene, Ernest. Non pensare a me.»

Doc aveva già ripreso. Si chinò sopra Mando, con una luce disperata negli occhi, come se l’arte insegnatagli da suo padre tanto tempo prima stavolta non bastasse. «Serve ossigeno» disse. Batté qualche colpetto sul torace di Mando. Il suono era sordo. Il respiro di Mando divenne più rapido. «Devo fermare l’emorragia» disse Doc. Le raffiche di vento aumentarono al punto da non permettermi di udire le voci a causa dei sibili. «Usiamo la ferita per inserire un altro tubicino…»

Tom chiese a Gabby cos’era accaduto; Gab glielo spiegò in un paio di frasi. Tom non fece commenti. Il vento cadde di nuovo, udii ora il rumore delle forbici. Doc si asciugò fa fronte madida.

«Ferma così. Bene, metti l’altro capo nel barattolo, dammi subito il cerotto.»

«Cerotto.»

Qualcosa, nel modo in cui Kathryn lo disse, indusse Doc a trasalire e a rivolgere a Tom un sorriso amaro. Tom restituì il sorriso, ma poi distolse lo sguardo, con occhi pieni di lacrime. Sentii sulla spalla una mano; alzai gli occhi, guardai Rafael.

«Henry, vieni in cucina con Gabby. Non puoi fare niente, qui.»

Scossi la testa.

«Vieni, Henry.»

Con una scrollata di spalle gli scostai la mano, nascosi il viso nell’incavo del braccio. Uscito Rafael, sollevai di nuovo lo sguardo. Tom si mordicchiava una ciocca e guardava intensamente i tre. Kathryn posò l’orecchio sul petto di Mando. «Il cuore batte pianissimo.»

Mando sobbalzò. Aveva i piedi lividi.

«E le vene» disse Doc, con voce secca come il vento. «Tamponare, ohhh…» Si ritrasse, le mani strette a pugno, ai lati del collo. «Non posso farci niente. Non ho gli aghi.»

Mando smise di respirare.

«No» disse Doc. Con l’aiuto di Kathryn spostò Mando, sulla schiena anziché di fianco. «Reggi i tubi.» Premette bocca e mani sulla bocca di Mando. Soffiò dentro, tenendogli tappate le narici; si raddrizzò, gli premette con forza il torace. Il corpo di Mando si contrasse in uno spasimo.

«Henry, tienilo per le gambe» disse Kathryn, brusca.

Mi alzai rigidamente, afferrai Mando per gli stinchi, li sentii torcersi, lottare, tendersi. Rilasciarsi. Doc gli soffiò in bocca, gli soffiò in bocca, gli premette il torace, finché le pressioni divennero quasi colpi violenti. Nei tubicini colò sangue. Doc smise. Guardammo Mando: occhi chiusi, bocca aperta. Niente respiro. Kathryn gli resse il polso, cercò la pulsazione. Gabby e Rafael erano sulla soglia. Alla fine Kathryn allungò la mano sopra Mando, strinse il braccio di Doc; eravamo rimasti lì in piedi per un tempo lunghissimo. Doc posò i gomiti sul letto, abbassò l’orecchio sul petto di Mando. La testa rotolò finché la fronte posò su Mando.

«È morto» mormorò Doc.

Stringevo ancora i polpacci di Mando, quegli stessi muscoli che si erano appena contorti. Lasciai la presa, atterrito di toccarlo. Ma era Mando, era Armando Costa. Il viso cereo sembrava il viso tormentato di un fratello malato di Mando, non il viso del ragazzo che conoscevo. Ma era lui.

Dalla credenza contro la parete Kathryn prese un lenzuolo e lo distese su di lui, dopo avere scostato con gentilezza Doc. Era sudata, macchiata di sangue. Coprì il viso di Mando. Ricordai l’espressione che aveva avuto, quando lo portavo per San Clemente: perfino quella era preferibile, adesso. Kathryn girò intorno al letto, spinse Doc alla porta.

«Seppelliamolo» disse Doc, assorto. «Facciamolo subito, andiamo.» Kathryn e Rafael cercarono di calmarlo, ma lui insistette. «Voglio farla finita. Prendete la barella e portiamolo al cimitero. Voglio farla finita.»

Tom tossì forte. «Per favore, Ernest. Aspetta almeno fino a domani, amico mio. Devi aspettare la luce. Devi far venire Carmen, e scavare la fossa…»

«Possiamo farlo stanotte!» protestò Doc, petulante. «Voglio farla finita.»

«Possiamo, certo. Ma è tardi. Quando avremo terminato, sarà giorno. Allora lo porteremo lassù, lo seppelliremo davanti alla gente. Aspetta il giorno, per favore.»

Doc si strofinò il viso. «E va bene. Andiamo a scavare la fossa.»

Rafael lo trattenne. «Ci pensiamo Gabby e io» disse. «Resta qui.»

«Voglio farlo. Devo farlo, Rafe.»

Rafael guardò Tom. Poi disse: «D’accordo. Vieni con noi, allora.»

Lui e Gabby fecero indossare a Doc giacca e scarpe, lo seguirono fuori. Mi offrii di andare anch’io, ma videro che non sarei stato di alcuna utilità e mi dissero di restare. Dalla porta di casa li guardai scendere il sentiero fino al fiume. Nel chiarore che precede l’alba, Gabby e Rafael camminavano ai lati di Doc, lo sorreggevano. Tre piccole sagome sotto gli alberi. Quando scomparvero alla vista, mi girai. Kathryn, seduta al tavolo della cucina, piangeva. Andai a sedermi nell’orto.

Il vento calava un po’ d’intensità, con lo spuntare del giorno. Colpiva con violenza solo a tratti. La luce aumentava: distinguevo l’ondeggiare di rami grigiastri. Sotto il cielo pallido le distanze parevano tutte uguali. Le foglie tremolavano e pendevano immobili, tremolavano di nuovo, in ondate che s’ingrossavano lungo la cima degli alberi verso il mare. La volta del cielo divenne più chiara e più lontana, più chiara e più lontana. I grigi presero colore, i colori filtrarono nei grigi e poi il sole, verde foglia e abbagliante, incrinò l’orizzonte. Il vento soffiò una raffica.