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Sedevo per terra. Ginocchio, gomito e mani mi pulsavano, dove mi ero tagliato cadendo. Impossibile che Mando fosse morto: questo pensiero mi rassicurò per lunghi tratti. Poi le mie mani sentirono di nuovo i suoi polpacci diventare inerti. Oppure udii dentro casa Kathryn rassettare… e capii che, impossibile o no, era la realtà. Ma non era un pensiero che potessi comprendere a lungo.

Il sole si era alzato più di una spanna sulle montagne, quando Doc e Gabby tornarono su per il sentiero, seguiti da Marvin e Nat Eggloff. Rafael aveva disceso il sentiero del fiume, bussava alle casa, svegliava la gente. Gabby barcollò visibilmente per l’ultimo tratto. Aveva gli occhi cerchiati di rosso, era sporco di terriccio, come Doc e Nat. Doc sollevò lo sguardo sulla casa, si fermò, attese. Marvin mi rivolse un cenno. Entrarono. Li udii parlare con Kathryn. Poi Kathryn cominciò a strillare contro il vecchio. «Sta’ giù! Non fare lo stupido! Ci basta già una sepoltura, per oggi!» Tom doveva dare dentro casa l’addio a Mando. Uscirono. Mando, avvolto nel lenzuolo, sulla barella di Rafael. Mi alzai, barcollando. Prendemmo tutti la barella, tre per parte. Lo portammo giù al fiume, oltre il ponte. Sole brutale riflesso sull’acqua. Prendemmo il sentiero del fiume, fra gli alberi. La gente avvisata da Rafael si unì a noi, una famiglia dopo l’altra, con aria sconvolta, o addolorata, o assente. Una volta, guardando indietro, vidi John Nicolin in testa al resto della famiglia tranne Marie e i bambini piccoli; aveva il viso gonfio per il dispiacere. Mio padre mi venne a fianco e mi circondò le spalle. Quando mi vide in faccia, aumentò la stretta. Per una volta non mi parve svanito di mente. Oh, aveva ancora lo sguardo vago di chi non capisce del tutto. Ma capiva. Non occorre essere intelligenti per capire il dolore. Oltre alla comprensione, nei suoi occhi c’era un leggero rimprovero. Non riuscivo a guardarlo in faccia.

Nella strettoia della valle eravamo all’ombra. Carmen ci venne incontro sulla porta di casa e ci guidò al cimitero. Indossava la tonaca delle prediche e reggeva la Bibbia. Nel cimitero c’era una fossa nuova: da un lato, una montagnola di terra fresca; dall’altro, la tomba della madre di Mando, Elizabeth. Posammo lì la barella. La gente che ci seguiva formò un cerchio. Quasi tutti gli abitanti della valle erano presenti. Nat e Rafael misero il corpo di Mando e il lenzuolo in una bara grande il doppio. Nat tenne fermo il coperchio, mentre Rafael lo inchiodava. Bam, bam, bam, bam. Raggi di sole filtravano tra i rami. Doc guardò con aria desolata i chiodi penetrare nel legno. Sua moglie e Mando erano morti giovanissimi, insieme non arrivavano alla metà dei suoi anni.

Inchiodato il coperchio, John avanzò di un passo e aiutò a sistemare le funi sotto la bara. Lui, Rafael, Nat e mio padre presero le funi e tennero sollevata sopra la fossa la bara. La calarono seguendo le brevi istruzioni sottovoce di John. Sistemata la bara, ritirarono le funi. John le raccolse e le diede a Nat: stringeva le mascelle con tanta forza da sembrare che avesse sassi in bocca.

Carmen avanzò fino all’orlo della fossa. Lesse un brano della Bibbia. Guardai un raggio di sole filtrare di storto fra gli alberi. Carmen ci disse di pregare e nella preghiera disse qualcosa a proposito di Mando, della sua bontà. Aprii gli occhi: Gabby mi fissava, dall’altra parte della fossa, accusatore, atterrito. Richiusi gli occhi, stringendo forte.

«Nelle Tue mani affidiamo la sua anima» disse Carmen. Prese una zolla di terra, la tenne sopra la fossa; nell’altra mano aveva una minuscola croce d’argento. Lasciò cadere nella fossa l’una e l’altra. Rafael e John spalarono la terra umida; le zolle caddero con un rumore sordo. Mando era ancora là sotto, quasi gridai che la smettessero, che lo tirassero fuori. Poi pensai che potevo esserci io, in quella fossa, e fui sconvolto dal terrore. Invece di Mando, il proiettile poteva colpire me, uccidere me. Fu il pensiero più terrificante della mia vita. Gabby s’inginocchiò accanto a Rafael, con le mani spinse giù la terra. Doc si girò dall’altra parte. Kathryn e la signora Nicolin lo condussero verso la casa degli Eggloff. Ma io rimasi lì a guardare; e mi riempie di vergogna scriverlo, ma cominciai a sentirmi felice. Felice di non esserci io, là sotto. Ero così felice di essere vivo, di essere lì a guardare, che ringraziai Iddio perché non era toccato a me! Grazie, Signore, che sia morto Mando e non io! Grazie, Signore. Grazie, Signore!

A volte, dopo un funerale, dagli Eggloff si tiene una sorta di veglia, ma non quel mattino. Quel mattino ciascuno tornò a casa. Pa’ mi condusse giù per il sentiero del fiume. Ero così stanco da inciampare dappertutto. Senza Pa’, sarei caduto più d’una volta.

«Cos’è successo?» mi chiese, di nuovo con espressione di rimprovero. «Perché siete andati lassù?»

C’erano altri, lungo il sentiero: scuotevano la testa, parlavano, guardavano dalla nostra parte.

Arrivati a casa, cercai di spiegare a Pa’ che cos’era accaduto, ma non potevo. L’espressione dei suoi occhi mi bloccava. Mi distesi sul letto e m’addormentai. Vorrei dire che dormii come un morto, ma non è così. Non è mai così.

Il sonno non ricuce la manica sfilacciata dell’affanno, checché abbia detto Macbeth (forse augurandoselo). Sbagliava quella volta, come spesso. Il sonno è solo un periodo di stasi. Si possono fare, nei sogni, tutte le ricuciture che si vogliono; ma quando si richiama il tempo, in un istante esso si dipana; e ci si ritrova al punto di partenza. Né sonno né sogni avrebbero ricucito per me quell’ultimo giorno: era dipanato per sempre. Passato.

Tuttavia dormii l’intera giornata e la sera; e quando la voce di Pa’, o il rumore della macchina per cucire, o un latrato di cani, mi strappava in parte al sonno, capivo di non volermi risvegliare anche se non ricordavo perché e riprendevo a dormire finché non tornavo a scivolare nel pendio dei sogni. Dormii anche per gran parte della serata, lottando sempre più faticosamente, con il passar delle ore, per rimanere addormentato.

Ma non si può dormire per sempre. Il rumore che spezzò il mio ultimo appiglio al sonno tormentato fu il u-uuuu, u-uuuu del gufo di canyon… il segnale di Steve, ripetuto con insistenza. Steve era lì fuori, senz’altro sotto l’eucalipto, e mi chiamava. Mi alzai a sedere, guardai fuori della porta; lo scorsi, un’ombra contro il tronco. Pa’ cuciva. Mi misi le scarpe. «Esco» dissi. Pa’ mi guardò, mi ferì di nuovo con quello sguardo perplesso di rimprovero, quel lieve accenno di condanna. Indossavo ancora i vestiti strappati della notte precedente. Puzzavano di paura. Ero affamato. Nell’uscire mi fermai un attimo a prendere mezza pagnotta. Mi avvicinai a Steve masticando un grosso boccone. Restammo insieme in silenzio sotto l’albero. Lui aveva in spalla una sacca piena.

Finito il pane, dissi: «Dove sei stato?»

«A Clemente, fino al tardo pomeriggio. Dio, che giornata! Ho trovato gli sciacalli che ci avevano inseguito. Cambiavo nascondiglio e sparavo, finché non hanno capito chi dava la caccia a loro! Ne ho anche colpiti alcuni… pensavano di essere assaliti da un’intera banda. Poi sono tornato a Dana Point, ma a quell’ora erano tutti andati via. Così…»

«Mando è morto.»

«… Lo so.»

«Chi te l’ha detto?»

«Mia sorella. Sono entrato di nascosto a prendere un po’ della mia roba; mi ha sorpreso proprio mentre me ne andavo. Mi ha detto tutto.»

Restammo lì a lungo. Steve inspirò a fondo, lasciò uscire l’aria. «Così, penso di dovermene andare.»

«Come sarebbe a dire?»

«… Vieni a darmi una mano.» Gli occhi mi si erano adattati al buio; con il suono esausto della sua voce, all’improvviso riuscii a vedergli il viso, sporco di terra, graffiato, disperato. «Per favore.»