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Di notte, la foresta è un luogo bizzarro. Gli alberi diventano più grandi e sembrano tornare alla vita, come se per tutto la giornata avessero dormito o abbandonato il proprio corpo; e solo di notte si animano e vivono, forse ritirano le radici e camminano per la valle. Se ti trovi nella foresta, a volte quasi li sorprendi, proprio con la coda dell’occhio. Naturalmente, in una notte senza luna, basta un leggero venticello a dare quest’impressione. I rami si piegano ad accarezzare i capelli, gli sgocciolii delle foglie sembrano voci fioche che chiamino in lontananza. Due buchi diventano occhi; una freccia incisa sul tronco è una bocca sorridente; i rami sono braccia; le foglie, mani. Facile. Penso ancora che forse siano davvero una specie d’animale notturno. Sono vivi, in fin dei conti. Tendiamo a scordarcene. In primavera germogliano gioiosamente; in estate, si crogiolano al sole; in inverno, soffrono la nudità e il freddo. Proprio come noi. Quindi, se si vuole avere a che fare con gli alberi, la notte è il momento giusto per starci in mezzo.

I diversi alberi si svegliano in maniere diverse e ti trattano in modi diversi. Gli eucalipti sono amichevoli e chiacchieroni. I loro rami tendono a crescere gli uni di traverso agli altri e nel vento scricchiolano in continuazione. E le foglie pendenti si agitano e si urtano, con un rumore d’acqua cadente, una voce che si alza e si abbassa, che accarezza come un abbraccio o un lieve tocco sulla fronte. L’eucalipto ha una grande voce. Ma non viene voglia di toccarlo o di abbracciarlo, a meno di vederlo con chiarezza per evitare la resina. La corteccia liscia e fresca, che emana come il resto dell’albero il tipico aroma acuto e vago, non cresce con la stessa velocità del legno interno, almeno immagino, e presenta quindi un mucchio di screpolature e ferite che la lacerano completamente. Le screpolature trasudano resina con la facilità con cui i cani sbavano, e nel buio non si può evitare di toccarle con le mani o con le braccia, che poi restano tutte appiccicose.

I pini sono conversatori più arcigni. Nella brezza, il loro calmo uuuuuu ha del soprannaturale e, sotto un forte vento, il loro frenetico ohhhhhhh fa rizzare i capelli in testa. Ma i pini sono piacevoli al tocco e non ci si stanca mai d’ammirare il loro profilo scuro contro il cielo. I pini di Torrey hanno aghi più lunghi di tutti e rametti piccoli, arricciati, che si dipartono a spirale da quelli più grossi, sembrano pezzi delle molle che Rafael tiene in bottega, e formano graziosi disegni. E la corteccia scabra e friabile procura una sensazione piacevole contro la pelle, come la lingua di un enorme gatto. La corteccia delle sequoie è anche migliore, crepata e lanosa; si possono infilare le dita nelle crepe e reggersi come se ne andasse della vita: sembra quasi di abbracciare un orso, o di stringersi alla propria madre e piangerle fra i capelli. Amici fantastici, i pini; anche se per scoprirlo tocca ignorare la loro voce severa e toccarli.

Naturalmente ci sono vere creature viventi, nella foresta, di notte; creature mobili, voglio dire, animali come noi. Ce n’è un mucchio, in realtà: coyote e donnole, moffette e procioni, daini e felini selvatici, conigli e opossum, orsi e chissà cos’altro. Ma figuriamoci se ci si accorge della loro presenza solo a camminare fra gli alberi. Anche un essere umano seduto tutto solo nella foresta per ore potrebbe non scorgere neppure di sfuggita una singola creatura… a maggior ragione uno che cammina con fracasso rasentando alberi e simili. Un tipo del genere non vedrà mai un solo animale, né lo sentirà, a parte le rane. Le rane non si spaventano facilmente, hanno il fiume in cui saltare e se ne fregano. Solo perché tacciano, bisogna rischiare di pestarle, altrimenti nemmeno si muovono. Tutti gli altri animali però ti sentono arrivare o ti fiutano da lontano; si tolgono di mezzo e non saprai mai che c’erano, a meno di non udire un fruscio in lontananza. Certo i grossi felini possono decidere di mangiarti, ma ti auguri che siano abbastanza prudenti da starsene lontano dalla valle. In genere evitano la gente e in autunno non sono molto affamati. Perciò, se vai in giro, non vedi animali; ed è questo lo strano, perché sai che sono dappertutto, a bere, a mangiare germogli o prede morte, a cacciare o a nascondersi l’uno dall’altro.

Ma ho scordato gli uccelli. Di tanto in tanto si scorge di sfuggita la sagoma nera di un gufo in volo senza il minimo rumore. Oppure, più in alto, anatre e aironi in migrazione, con la testa spinta avanti su quel collo lunghissimo, in una formazione a V che si modifica di continuo. A volte sembra che giochino a “cambia il capofila”, facendo a turno. (I corvi invece giocano a “segui il capofila”, quasi ogni bella serata, al tramonto.)

Quella notte vidi uno stormo di anatre diretto a sud: due paia di ampie V sopra la valle nell’ora che precede l’alba, quando il cielo si schiariva e riuscivo a distinguerle con buona chiarezza. Lenti e decisi colpi d’ala e una vispa conversazione a base di richiami striduli e rauchi…

Ovviamente non fanno parte della foresta vera e propria, ma li si vede lo stesso, se si è fra gli alberi. E io li vidi, quella notte. All’inizio dormii contro una sequoia; poi, per un poco, rannicchiato fra due radici nodose. Ma per lo più andai in giro. Avevo trascorso un mucchio di tempo nella foresta, di giorno e di notte, senza badarle minimamente. Era una casa, niente di speciale. Ma quella notte non volevo pensare a niente. Ero fermamente deciso a non pensare a niente; e per lunghi tratti ci riuscii. Studiai un albero dopo l’altro, vissi con loro e imparai davvero a conoscerli, li toccai, mi arrampicai su qualcuno… cercai anche gli animali che sapevo in giro lì attorno; ma, come ho detto, non amano che la gente li guardi. Udii rumori di baruffa, alcune volte, ma non vidi neppure uno scoiattolo.

Nel punto in cui il torrente dello Swing Canyon si unisce al fiume, c’è un piccolo prato sul quale non mancano mai orme d’animali. Quando mi svegliai e vidi in alto le anatre, girellai da quelle parti con la speranza di scorgere un fratello peloso farsi una bevuta. E infatti, dopo essere rimasto disteso un bel pezzo fra le felci dietro un tronco coperto di licheni a guardare un ragno tessere la tela del mattino, una famiglia di daini venne ad abbeverarsi. Maschio, femmina e cerbiatto. Il maschio si guardò intorno e annusò l’aria; capì che ero lì, ma non se ne preoccupò, mostrandosi buon giudice. La femmina faceva la schizzinosa nel fango lungo il torrente, ma il cerbiatto vi si muoveva a passo incerto. Aveva circa tre mesi, quindi avrebbe dovuto camminare perfettamente, ma sembrava voler infastidire la madre. Terminato di bere, la famiglia si allontanò nel prato e poi fuori vista.

Mi alzai, tutto irrigidito; andai al torrente e bevvi anch’io. Avevo ancora i calzoni umidi e le gambe infreddolite; ero indolenzito, sporco, pieno di tagli, affamato, sfinito… ma in linea di massima mi sentivo bene. Camminai lungo la riva occidentale, deserta come una tazza vuota. Ormai non avrei ricominciato a piangere neanche se avessi pensato a Mando e Steve. Era finita così, e non sentivo quasi niente. Se n’erano andati. E mi sentivo vuoto.

Ma poi, superala la curva sopra il ponte, scorsi una figura più a valle, sulla mia stessa riva, in fondo ai campi di granturco. Era ancora primo mattino, quando il mondo è fatto solo di sfumature di grigio… mille sfumature di grigio, ma non un filo di colore. La rugiada inzuppava ogni foglia grigia, ogni stelo, ogni felce, segno che il Santa Ana stava per terminare. Un topolino squittì, quando passai accanto alla sua tana. Mi bloccai, ma non a causa del topo.

La figura a valle era una donna. (Se una persona è visibile, per quanto lontano sia ne capiamo subito il sesso… a volte non sono sicuro di come accada, ma è così.) E la scura sfumatura grigia dei capelli di quella donna sarebbe stata castana al sole, castana con sfumature rosse. Già in quel mondo di grigi distinguevo il tocco di rosso. Si trattava di Kathryn, in fondo ai suoi campi. Dal ginocchio in giù, i calzoni erano più scuri… bagnati, quindi: significava che anche lei era stata fuori a gironzolare per un poco. Forse tutta la notte pure lei. “Ecco un altro animale che non ho visto nella foresta di notte” pensai. Mi voltava le spalle. Avrei potuto avvicinarmi, ma un impulso mi trattenne. Ci sono volte in cui una schiena a cento metri è altrettanto espressiva di un viso a un palmo. Kathryn cominciò a camminare lungo il fiume, verso il ponte. Al termine del campo, girò all’improvviso a destra e diede un calcio violento all’ultima pianta di granturco. Kathryn porta stivali grossi: la pianta si piegò, rimase inclinata. Kathryn non fu soddisfatta. Continuò a prenderla a calci finché non l’appiattì a terra. La vista mi si annebbiò, incespicando mi rifugiai fra i boschi: tutte le nostre catastrofi erano di nuovo reali, per me.