Tornai nella valle, più depresso che mai. Mi fermai da Doc: Tom dormiva, aveva l’aspetto di un morto; Doc, con gli occhi infossati, seduto da solo al tavolo della cucina, fissava la parete. Mi affrettai a scendere al fiume, attraversai il ponte, mi fermai alla latrina dei bagni, mi liberai. Mentre uscivo, entrò John Nicolin. Mi lanciò un’occhiata astiosa e mi sfiorò senza dire una parola.
Così andai alla spiaggia. E il giorno dopo vi tornai. Cominciavo a conoscere l’esercito di piovanelli: quello con una zampa sola, quello nero, quello con il becco rotto. La marea venne avanti, sommerse il tavolo da pranzo delle mosche. Si ritirò, scoprì di nuovo le alghe bagnate. I gabbiani volteggiavano e stridevano. Un pellicano atterrò sulla sabbia bagnala e rimase a guardarsi intorno con riserbo. Ma i frangenti erano grossi, quel giorno; e il pellicano fu lento a sottrarsi all’onda in arrivo; fu colpito, s’allontanò in fretta, cadde, agitò le lunghe ali, il becco, il collo, le zampe, in una complicata capriola. Risi, mentre si rialzava, bagnato, scarmigliato, arruffato; ma lui zampettò con aria buffa, corse per prendere lo slancio e planò giù sulla spiaggia; dopo le risa, piansi.
Tornarono le nubi. Una muraglia grigia era ferma all’orizzonte; il vento ne staccava dei pezzi e li spingeva verso terra. Finalmente era cambiato. Il Santa Ana aveva tenuto al largo le nubi per più di una settimana; ora quelle tornavano a reclamare il loro territorio. All’inizio erano in poche, sfrangiate e trasparenti, tranne al centro. Le nuvole generano nuvole, però; nel pomeriggio avanzarono, più scure e più basse, finché tutta la muraglia non prese velocità e avanzò dall’orizzonte, acquistando un colore azzurro cupo e coprendo il cielo, come un lenzuolo. L’aria divenne fredda, i gabbiani sparirono, il vento di mare crebbe d’intensità. Le nubi divennero tempestose, sputarono fulmini in mare e poi sulla terraferma, facendo sfrigolare le onde e abbattendo alberi sui costoni. Seduto sopra un tronco grigio e consunto, guardai le prime gocce butterare la sabbia. Sotto la pioggia, la superficie color ferro dell’oceano perdette lucentezza. Mi strinsi nella giacca e testardamente rimasi lì seduto. La pioggia si mutò in grandine. I chicchi caddero fino a formare uno strato chiaro sopra i granelli rossicci: una spiaggia di sabbia, coperta da una sabbia di vetro.
Abbandonai la spiaggia, risalii il sentiero della scogliera. La grandine si mutò in pioggia. Mani in tasca, percorsi il sentiero del fiume e lasciai che la pioggia mi colpisse in faccia. Mi scorreva dentro la giacca, ma non importava. Rimasi all’aperto, camminai di proposito nelle radure e nei tratti privi d’alberi, ricavandone piacere proprio per la stupidità di quel comportamento.
Continuai a risalire la valle finché non mi trovai ai margini della piccola radura adibita a cimitero. La pioggia ruscellava da nuvole ferme proprio lì sopra; nella fioca luce grigia, gli alberi sgocciolavano rumorosamente. Attraversai la piccola sezione accanto al fiume, dove erano sepolti i giapponesi gettati a riva dal mare. Le croci di legno dicevano: Cinese ignoto. Morto nel 2045, o quale che fosse la data. Nat aveva fatto un buon lavoro, a intagliare lettere e numeri.
Nella radura vera e propria c’erano i nostri morti. Camminai nel fango appiccicoso, da tomba a tomba, e contemplai i nomi. Vincent Mariani, 1992-2038. Un cancro se l’era portato via. Ricordavo che giocava a nascondino con Kathryn, Steve e me, quando Kathryn era piccolissima. Arnold Kalinski, 1970-2026. Era giunto nella valle già malato, diceva Tom; Doc aveva temuto che ci contagiasse tutti, ma non era successo. Jane Howard Fletcher, 2002-2030. Mia madre, proprio qui. Polmonite. Strappai qualche erbaccia alla base della croce, passai avanti. John Manley Morris, 1975-2029; Eveline Morris, 1989-2033. Cancro, per lui; lei era morta d’infezione a seguito di un taglio al palmo. John Nicolin Junior, 2016-2022. Caduto nel fiume. Matthew Hamish, 2034. Deforme. Mark Hamish, 2036. Luke Hamish, 2039. Deformi entrambi. Francesca Hamish, 2044. Idem. E Jo era di nuovo incinta. Geoffrey Jones, 1995-2040; Ann Jones, morta nel 2040. Morti entrambi nell’incendio della casa. Endeavor Simpson, 2039. Deforme. Defiance Simpson, 2043. Deforme. Elizabeth Costa, 2000-2035. Malattia imprecisata: Doc non era mai riuscito a scoprire quale. Armando Thomas Costa, 2033-2047.
Ce n’erano altri, ma mi fermai ai piedi della tomba di Mando, guardai la croce intagliata di recente. Anche la Bibbia dice che all’uomo tocca una vita di tre ventine e dieci; eppure era tanto tempo fa. Invece eccoci qui, a morire in anticipo, come rane nel ghiaccio.
Il terriccio nella fossa di Mando si era assestato e si abbassava di più sotto la pioggia. Andai alla buca aperta in fondo alla radura, presi la pala che Nat lascia sempre lì; cominciai a portare terra sulla tomba, una palata dopo l’altra. Il fango si appiccicava alla pala, il terriccio si spargeva malamente, non compattava bene. Pessima idea. Gettai la pala nella buca, sedetti sull’erba accanto alla tomba, dove potevo stringere l’asta orizzontale della croce. Rane nel ghiaccio. La pioggia diluiva il fango, creava pozze. Guardai in giro la nostra messe di croci, tutte sgocciolanti nella grigia luce del pomeriggio. Non è giusto, pensai. Non dovrebbe essere così. Mando era lì sotto di me, eppure non c’era; era morto, svanito, non esisteva più. Non sarebbe tornato. Presi una manciata di fango, lo strizzai fra le dita. Mando era cambiato, da persona viva a niente più che fango nel mio pugno. E la stessa cosa sarebbe accaduta a tutti quelli che conoscevo. E a me. Ogni nostra azione non avrebbe fatto differenza; niente sarebbe durato, qualsiasi cosa dicessimo. Non capivo il punto. Era troppo strano che vivessi e lavorassi sulla terra finché non mi spezzavo, e poi diventassi semplice fango. Rimasi lì, sotto la pioggia, a strizzare fango fra le dita. Squish squish. Squish, squish.
22
Ma il vecchio sopravvisse.
Il vecchio sopravvisse. Non l’avrei mai creduto. Penso che tutti siano rimasti sorpresi, perfino Tom. So che Doc rimase stupito. «Non l’avrei mai creduto» mi disse, allegro, quando andai a trovarli, un mattino nuvoloso. «Ho dovuto strofinarmi gli occhi e darmi pizzicotti. Ieri mi sono alzato e lui era seduto qui al tavolo della cucina, lamentandosi: «Dov’è la colazione? Dov’è la colazione?» Certo, per tutta la settimana i polmoni gli si erano ripuliti; ma a dire la verità non ero sicuro che bastasse. Eppure era lì a tormentarmi.»
«A proposito» disse Tom, dalla stanza da letto «dov’è il tè? Non rispetti più le misere richieste di un paziente?»
«Se lo vuoi caldo, chiudi il becco e sii paziente!» lo rimbeccò Doc, con un sogghigno nella mia direzione. «Cosa ne dici di un po’ di pane per accompagnarlo?»
«Logico, no?»
Entrai nell’ospedale. Tom, seduto sul letto, batteva le palpebre come un passerotto. «Come ti senti?» chiesi timidamente.
«Affamato.»
«Buon segno» disse Doc, dietro di me. «Ritorno dell’appetito, buon segno davvero.»
«A meno d’avere un cuoco come il mio» replicò Tom.
Doc sbuffò. «Non farti fregare, divora proprio come prima. Gli piace, è evidente. Prima o poi vorrà fermarsi qui solo per come cucino.»
«Sì, quando gli asini voleranno!»
«Oh, che ingratitudine!» esclamò Doc. «E pensare che ho dovuto quasi sempre cacciargli il cibo in gola. Sembravo mamma passerotto. Forse dovevo predigerirglielo…»
«Ah, sai che gioia» gracchiò Tom. «Mangiare il vomito, puah! Porta via, ho perso l’appetito.» Bevve rumorosamente un poco di tè, imprecò perché era troppo caldo.
«Be’, è stata dura farlo mangiare, te lo dico io. Ma guardalo, ora!» Doc guardò con soddisfazione Tom divorare pezzi di pane, nel suo solito modo da morto di fame. Alla fine Tom mi sorrise, mettendo in mostra i denti mancanti. Le sue povere gengive avevano patito, durante la malattia, ma gli occhi castani mi guardarono con lo stesso sguardo chiaro d’una volta. Sentii che la faccia mi si allargava in un sorriso.